Tra i muri di Milano: 30 anni di writing – Intervista a Rendo

Siamo agli inizi degli anni ’90. Sei un ragazzo di Milano e vivi in una realtà divisa tra paninari, punker e metallari. Ti trovi in un contesto che non senti tuo e che ti porta a essere distante dalle mode del tempo. Sei uno di quei (pochi) ragazzi che ama la cultura hip hop: ami disegnare e non vuoi far altro che condividere la tua arte.

È proprio questo il clima in cui cresce Rendo – storico membro di TDK Crew, collettivo di writer nato tra la fine degli anni ’80 e gli inizi dei ’90. Il loro impatto sulla città di Milano è stato considerevole e l’artista in questione è diventato una delle colonne portanti di ciò che oggi possiamo chiamare urban culture. Con i propri pezzi – secondo lo slang del writing – hanno sdoganato quest’arte portandola anche alla ribalta del contesto nazionale. Non intendiamo dire che prima di loro esistesse il nulla, però è un dato di fatto che questo collettivo abbia dato una grossa mano alla diffusione dell’opera su muro.

Dopo un silenzio durato circa trent’anni, abbiamo avuto modo di confrontarci con Rendo. La sua personalità artistica è tanto semplice quanto complessa: curiosità, conoscenza, dedizione e sincerità sono le parole che segnano il suo intero percorso. Dal writing al mondo della scultura, passando per Banksy, Murakami e alla “città del futuro” di Antonio Sant’Elia abbiamo scoperto una Milano inedita e un artista dalla profondità espressiva con pochi eguali in Italia.

In rete ho recuperato un video: “Aerosol Art” datato 1991 e firmato TDK. Sono passati trent’anni da quel video. Quando si è ragazzi si vuole rivoluzionare il mondo, e a cinquanta si cerca di mantenere l’equilibrio che si è costituito nella propria vita. Quanto è cambiato il tuo modo di intendere il writing rispetto alla società?

Avendo conosciuto il writing come forma d’arte e avendo frequentato la mostra “Arte Di Frontiera” da piccolissimo, avevo circa 15 anni, ho sempre pensato al writing  come una forma d’arte vera e propria, piuttosto che di ribellione. Crescevo come un qualsiasi ragazzo italiano a Milano: vivevo in una condizione certo non agiata, ma neanche di povertà. Non ho mai capito perché e a cosa mi sarei dovuto ribellare. Ero troppo piccolo per capire le dinamiche della società in cui vivevo.

Ho sempre pensato al writing come una sfida personale per migliorarsi continuamente come artista e come persona. Per me l’artista è colui che è in grado di costruire uno stile espressivo personale identitario, staccato dai canoni dei maestri americani.

Ho sempre pensato che i maestri di New York fossero i più bravi in assoluto – e sinceramente per me lo sono ancora, quando vedo alcune loro opere rimango ancora sbalordito dalla bellezza -, ma vedendo gli artisti presenti nel libro “Subway Art” ho capito fin da subito che l’unico modo per onorare quei maestri era creare qualcosa di originale, che mi rappresentasse completamente. Io non ero loro, e non potevo esserlo. Giocare a imitarli era una cosa che per me non aveva senso.

Rispetto alle denunce sociali mi sono sentito sempre fuori luogo: non mi sono mai sentito adatto a combattere battaglie perché sinceramente non le capivo quando ero un bambino; vedevo il writing come un provare a misurarsi con sé stessi al fine di migliorarsi.

Per quanto riguarda “Aerosol Art”, il video del 1991 firmato TDK: in realtà era la prima videocassette di una trilogia che sarebbe dovuta uscire; la seconda si sarebbe occupata di spiegare come dipingere un pezzo su muro partendo dal disegno su carta, la terza doveva essere una specie di versione in video del libro “Spraycan Art” dove giravamo il mondo per riprendere i vari graffiti. 

La casa di produzione che si occupava di questa cosa perse interessa nel progetto dopo l’uscita del primo numero. Non ci diedero mai i dati di vendita, però credo che il progetto vendette parecchio e fu un unicum in Italia perché fummo i primi a fare questa cosa.

Il writing ha ancora quel senso di ribellione che aveva negli anni ’80? 

Io mi sento ancora un ribelle, però in modo diverso. Da giovani si vuol cambiare il mondo, giustamente direi: sei un ragazzo e ha dei forti ideali. Allo stesso tempo hai però una visione limitata del mondo. Non hai ancora tutta quell’esperienza che ti permette di vedere il mondo a 360 gradi. Vivi in una bolla! Io stavo solo con gli amici che facevano graffiti e mi rapportavo con persone che la pensavano come me. Questo succede perché non sei in grado di sopportare (o comunque confrontarti) con un pensiero differente e/o con forme d’arte diverse dalle tue. Credi di avere ragione a prescindere e sei concentrato solo sulle cose che fai. 

Con il tempo in modo molto leggero e piuttosto continuativo (non c’è mai stato un vero cambio repentino) impari a conoscere il mondo: fai amicizie, parli con le persone. Inizi a capire. 

Mi sono iscritto all’università e ho studiato design. Piano piano quella voglia di ribellarsi che avevo prima è diventata qualcosa di più personale, rivolta a me stesso. Non ti vuoi massificare al resto, vuoi continuare a ragionare in modo autonomo: ho rinunciato a voler cambiare il mondo per provare a cambiare me stesso. Io voglio essere una persona consapevole del fatto che sia meglio crescere che invecchiare. Invecchi se rimani sempre lo stesso; cresci se spendi il tuo tempo imparando.

Le idee, per forza di cose, sono soggette al cambiamento: cambiano perché la società cambia, e di conseguenza anche tu non puoi che cambiare.

Quindi il tuo lavoro punta a nuovi livelli di comunicazione e vuole spingere alla riflessione.

Non ho mai avuto l’arroganza di voler insegnare a nessuno a riflettere. Non credo che i writers debbano avere dei compiti messianici, o almeno io non mi sento in grado di farlo. Ci sono artisti come Obey che creano degli slogan molto interessanti, ma io penso che lui ci creda veramente in quello che dipinge. 

Poi ci sono altri che propagandano questi messaggi solo per darsi un tono e poter andare sulle riviste patinate. Bisogna essere sempre abbastanza scaltri nel capire chi si ha davanti.

Nel video sottolinei spesso il fatto che “i muri devono essere legali”.

Attenzione, “muro legale” non vuol dire che dipingi ciò che l’autorità chiede. Disporre di un muro legale significa poter disporre del proprio tempo: puoi dipingere quello che vuoi senza alcun condizionamento, senza fretta o pressione. Questo ti permette di lavorare con un livello di precisione tale da realizzare lavori importanti.

Ovviamente i maestri americani che dipingevano le metropolitane realizzavano cose spaziali anche in pochissimo tempo. Tutto si risolve dunque nel proprio personalissimo modo di dipingere. Io, ad esempio, sono estremamente lento. 

Mi sono reso subito conto, quando dipingevo negli anni ’80, che non importava quanto tempo impiegassi. Alla fine conta solo il risultato artistico realizzato sul muro. Dopo un mese vedevo che a nessuno interessava se avessi chiuso il pezzo in un’ora piuttosto che in sei: tutti guardavano la qualità. 

Cosa significa per te “essere autentici”?

Significa essere coerenti alle proprio idee e realizzare i propri progetti in modo impeccabile dal punto di vista tecnico. Tutto il resto sono disquisizioni che secondo me non hanno mai avuto senso, per altri sì e rispetto il loro modo di pensare. Ciò che conta per me è la qualità.

Negli anni successivi molti hanno ammesso di aver cambiato posizione a riguardo, affermando che per anni hanno dipinto in modo illegale realizzando cose molto spartane e sommarie: era nel gesto, nell’azione, il valore più importante. Alla fine rimane poco e niente di quei lavori da un punto di vista artistico. 

A me importava che ogni pezzo fosse figo e impeccabile, così da rappresentare un piccolo salto in avanti rispetto a ciò che facevo prima. Non sempre ci sono riuscito ovviamente, ma c’ho provato.

Il writing è solo una delle quattro discipline dell’hip hop. Dedicarsi a quest’arte significa darsi un po’ a questa cultura.

Sì, esattamente. Noi all’inizio facevamo tutto. Io ballavo, non mettevo i dischi perché era troppo dispendioso, ma dipingevo e provavo a rappare, con tutti i limiti del periodo. 

Negli anni ’80 cercavamo di vivere la cultura hip hop a 360 gradi, anche se poi come ti ho detto prima significava vivere all’interno di una bolla. È stato un periodo bellissimo. La cultura hip hop ha cambiato la mia visione della vita, soprattutto riguardo l’esprimere sé stessi fregandosene di tutto ciò che si ha intorno.

In quegli anni a Milano c’erano esclusivamente i paninari ed erano devastanti: erano la moda preponderante in quel momento; se non eri un paninaro eri escluso da tutto. Io ero felice di essere escluso perché non me ne fregava un cazzo di loro, però ho trovato nella comunità hip hop fatta da pochissime persone una famiglia con cui finalmente poter parlare di arte, di espressione personale e non di moda. Per me l’hip hop è stata una salvezza.

Pensi che il writing, e in generale la cultura urban, abbia ancora un senso morale? O artisticamente siamo sprofondati in una sorta di nichilismo?

I writers sono liberi di scrivere e dipingere quello che vogliono, l’importante è essere autentici. Se non me la sento di affrontare determinate questioni – l’inquinamento della terra, le discriminazioni razziali, i diritti individuali – non devo essere discriminato, ma se decido di farlo merito di essere passato ai raggi X per vedere se nella mia vita sono coerente con le cose che rappresento. Ho l’impressione che un sacco di artisti approfittino di questi problemi per generare hype. Trasformano le ingiustizie in un bene di consumo artistico, e per questo non li sopporto.

Intendiamoci, è giusto occuparsi di temi sensibili, ma l’azione deve produrre un effetto, anche se minimo. Se fingi di lottare per una causa solo per avere la tua bella foto su Instagram, per poi tornare nel tuo paese e provare a vendere le tue opere a prezzi più alti, meriti solamente un totale disprezzo.

C’è molto opportunismo dietro questo mondo: anche io a volte vorrei prendere posizione, ma mi rendo conto che non aggiungerei nulla di nuovo a ciò che è stato già detto. Preferisco, come individuo, agire in modo corretto rispetto al mondo.

Pensi che con l’avvento della cultura mediatica (e dei social media) si sia perso questo senso di compartecipazione?

L’avvento della cultura mediatica ha fatto esplodere l’hip hop. Prima per capire cosa facevano nel mondo dovevi aspettare una fanzine o che qualcuno viaggiasse. Oggi tutti vedono tutto, istantaneamente. 

Spesso mi domandano se sia più facile dipingere oggi o allora (ride, ndr): la verità è che è difficile sempre. Una volta avevamo pochissimi punti di riferimento e per lunghi periodi andavamo alla cieca: avevamo delle bombolette scadenti – le DUPLI-COLOR o le Talken Color – che non erano adatte per fare i graffiti. Avevamo enormi problemi di tipo tecnico.

Oggi le bombolette ti permettono di fare qualunque cosa e puoi sapere in tempo reale cosa succede in tutto il mondo. Questo è un grande vantaggio se hai una mente aperta e se hai una tua direzione artistica ben precisa. Se invece non hai un’idea di ciò che vuoi fare, può essere devastante vedere mille espressioni personali artistiche in pochi minuti. 

È difficile in entrambi i casi. Certo, è ancora possibile avere delle buone idee, tutto dipende dalla tua capacità di scavare dentro te stesso e capire esattamente cosa desideri esprimere. Di esempi ce ne sono tantissimi, ma poi il lavoro deve essere tuo. Dipende molto da quella che io chiamo “cultura umanistica”, la capacità di andare oltre un disegno, così da capire anche l’impalcatura intellettuale a fondamento di un’opera.

Ha ancora senso parlare di hip hop come elemento di mediazione culturale fra le varie generazioni?

Penso che ancora oggi le generazioni si confrontino e si sfidino – ed è giusto così. Penso che nessun artista debba dormire sonni tranquilli, perché deve sempre sentirsi messo alla prova da chi arriverà.

Per quanto riguarda invece il senso di partecipazione, oggi manca molto. Tutti si fermano a vedere l’immagine sul social, ma pochi viaggiano per vedere i pezzi. I pezzi vanno visti dal vivo, le opere d’arte vanno viste dal vivo. Un’immagine sul telefonino non rende assolutamente idea del lavoro che c’è dietro. Parlo per esperienza: avendo avuto la possibilità di viaggiare negli anni ‘90 andavo spesso a Parigi, a Londra o in Germania. 

Sono andato a vedere i pezzi dal vivo ed è tutta un’altra cosa. Ti dà la possibilità di annusare quasi fisicamente il pezzo, di sentire il colore della vernice e vivere il posto in cui è stato realizzato. Noi ci spostavamo perché volevamo vedere le opere, conoscere gli artisti, confrontarci e carpire la tecnica, mentre oggi questa cosa non si fa ed è un gran peccato.

Fruire di nuovi spunti ha forse reso più difficile la creazione di uno stile proprio e identitario?

Direi di no. C’è sempre qualcosa da imparare e un nuovo linguaggio da esplorare. Qualche tempo fa parlavo con un mio amico e gli dicevo che quando vedo qualcosa che mi piace, in giro o su Instagram, faccio lo screenshot e lo tengo lì. Lo lascio sedimentare. Successivamente cerco di “Rendizzarlo” (“farlo di Rendo”, ndr): se qualcosa mi piace cerco di prenderlo e di trasformarlo e dargli un’ottica tridimensionale. Poi magari non porta a un risultato effettivo, ma lo ritengo un utile esercizio di immaginazione. Si tratta di un processo creativo che non è mai lineare, è fatto di Stop and Go, di periodi di fermo e di accelerazioni improvvise, di stimoli che per anni non ti hanno detto nulla di utile, ma che a un tratto riguardandoli cambiano le sorti di un progetto. 

In tutto questo è fondamentale avere una grande cultura umanistica; per me devi aver studiato storia dell’arte e sapere in che punto della storia del mondo sei. Ho visto molti writers fare cose e dire che erano frutto del loro operato. Poi magari scoprivi che erano riprese dagli anni ’80-’90, e loro si difendevano dicendo di non saperne nulla.

C’è tantissimo da fare: i mondi si contaminano, le culture si contaminano, i linguaggi si contaminano, le mode si contaminano; tutto è ispirazione, devi solo avere l’occhio e la conoscenza per capirlo.

Uno studioso della mente diceva che ogni individuo è dotato di un filtro cognitivo che si rimodella nel tempo: in base alla nostra cultura riusciamo a filtrare le informazioni a cui siamo esposti e capire quali valgono la pena di essere conservate in una specie di magazzino. Ecco, più hai cultura – più vedi cose, film, musica – più affini questo filtro che ti serve per immagazzinare le informazioni. Poi, un giorno, quando meno te l’aspetti, queste informazioni escono fuori salvando un progetto o un’idea dal fallimento.

Parto da una citazione: “come il brutto non ha esistenza di per sé, ma la riceve dal bello, così ques’ultimo, inteso come unità e come armonia non può fare a meno del brutto come suo intimo momento”.  (Rosenkranz – Estetica del Brutto). L’eccesso di precisione non va forse a limitare quelle piccole sbavature che impreziosiscono il lavoro manuale di un artista?

Assolutamente sì, ma attenzione! Sia la precisione che le sbavature devono essere un mezzo, non un fine. Nell’ultimo periodo sto dipingendo a mano e mi interrogo molto su quale sia il giusto livello di precisione che devo dare i miei lavori. Considera che sono quasi sempre lettere di tipo geometrico e mi domando che senso abbia scendere oltre un certo livello di dettaglio.

Se tu vedi le opere di Takashi Murakami (l’artista giapponese più influente nell’arte contemporanea secondo Forbes, ndr), lui richiede ai suoi assistenti con una precisione veramente assurda. Ho visto le sue opere dal vivo più di una volta in alcune mostre e sembrano stampate, non dipinte. Secondo me, è frutto di un manierismo che non ha senso o che magari io come occidentale non capisco. 

Penso che tutto debba essere finalizzato al tipo di messaggio che vuoi lanciare: vedendo come evolve il linguaggio di alcuni amici artisti, ho capito che avere una buona tecnica pittorica di tipo figurativo può essere il più grande ostacolo per la realizzazione di nuove immagini, perché l’artista eviterà di dipingerle se o fino a che non verranno rappresentate con la dovuta perizia. Io ho voluto creare un linguaggio che può essere rappresentato facilmente anche da un bambino, perché il possesso della tecnica è irrilevante. 

Le righe se perfette, devono essere perfette per un motivo; stessa cosa per le sbavature. Devono avere un loro motivo artistico, far parte di un linguaggio. Molti writer e Street Artist usano far gocciolare le proprie opere perché sono convinti che le gocce diano quello storytelling in più e che un certo livello di imprecisione, tipico di ciò che viene prodotto in strada, aumenti il valore percepito delle proprie opere. Sono tutte cazzate. Sono solo modi per autoconvincersi che l’opera sia bella.

Se il messaggio che ha dietro vale, che ci siano le gocce o meno, non importa assolutamente. Ad esempio, Banksy: con le sue mascherine, i suoi ratti, tutte le immagini che lui disegna sul muro sono potentissime; non frega un cazzo a nessuno che ci siano le gocce o meno.

Poi ci sono quelli che copiano Banksy e pensano che usare lo stesso stile senza avere un’idea di fondo possa sostituire la mancanza di messaggio. Quando qualcuno copia palesemente significa che non ha niente da dire.

Quasi ogni tua opera utilizza la prospettiva secondo lo stile 3D. È senza dubbio una delle tecniche più difficili da maneggiare. 

Il mio stile 3D nasce dal fatto che nella mia storia evolutiva ho avuto due momenti: quello pre-universitario dove realizzavo essenzialmente opere di tipo figurativo e quello post-universitario in cui, studiando il design e l’architettura, ho iniziato a immaginare delle lettere come elementi tridimensionali. Queste non erano più frutto di un estrusione verso destra per creare una sorta di effetto di profondità, come si usava normalmente fare, ma diventano degli oggetti che potevano anche essere costruiti fisicamente. Ho iniziato a vedere le lettere come delle strutture architettoniche.

Pensando alla complessità di queste opere penso a un “nuovo futurismo” molto più democratico, che vuole arrivare a tutti e non essere relegato ai salotti culturali.

Io non ho mai fatto parte di salotti culturali, non mi sono mai speso più di tanto dal punto di vista filosofico-intellettuale per parlare del writing, l’ho fatto fare ad altri che sinceramente come graffitisti valevano poco. Ho sempre osservato con totale distacco quei salotti dove persone di estrazione borghese, senza titolo o competenza specifica, disquisivano sul writing con una certa superbia d’atteggiamento, con la pretesa di voler venire a spiegarci chi eravamo e perché dipingevamo.  Ultimamente va di moda nei circoli accademici, darsi una botta di vita, parlando di writing e street art (ride, ndr).

Io dipingo, ho sempre dipinto ed è quello che volevo. Avevo un disperato bisogno d’esprimermi e il writing me ne ha dato l’occasione. Quando ero giovane venivo guardato male perché non dipingevo nello stile che era in voga in quel periodo. Ho sempre pensato a soddisfare prima di tutto me stesso, con tutti i miei limiti. Ho sempre visto il mio modo di dipingere come il diritto di esprimere il mio punto di vista.

La forza del writing è ancora il suo essere meritocratico?

Il writing è pura meritocrazia. Tutti possono dipingere: nessuno te lo impedirà mai, a meno che tu non ti diverta a rompere le scatole andando a coprire altri graffiti appena fatti. Come regola di base dovrebbe passare del tempo e il nuovo pezzo dovrebbe essere migliore del precedente, ma questa è una visione romantica dei primi anni del writing, che ora non esiste più. 

È anche vero però che il graffito nasce come forma d’arte transitoria e non permanente; tutti hanno il diritto di dipingere. Chiunque può aspirare a diventare il migliore. 

Per come viene propagandata dai media, la street art ormai non è più una forma d’arte: è una forma di illustrazione rassicurante, spesso di bassa qualità. È stata subito accettata dal mondo mainstream, borghesizzandosi. La maggior parte degli artisti ha paura di uscire da questa ala di consenso, dipingendo solo cose che non dispiacciono al gusto comune. Sono pochi quelli che non hanno rinunciato a essere sé stessi.

Di contro, il writing è sempre stato considerato un’arte borderline e di rottura, non ha mai avuto bisogno di piacere. E questa è stata la sua salvezza. 

Se guardi “The Art Of Rebellion” (una serie di libri sulla Street Art, usciti negli anni 2000, ndr) vedi la differenza tra il primo numero e i successivi. All’inizio era una pubblicazione piccola, fatta senza una vera e propria grafica con la sovrapposizione di immagini di ogni tipo, tipica del caos urbano. Era veramente sintomo di un’istanza di ribellione che arrivava dal basso. Una nuova generazione di artisti voleva impossessarsi dell’ambiente urbano che li opprimeva per trasformarlo in un’opera d’arte. E usavamo gli elementi del mondo urban per farlo: muri, panchine, semafori, cartelli stradali etc. L’opera d’arte si nutriva della particolarità del supposto su cui veniva applicata.  

Già il secondo numero di “The Art of Rebellion” inizia a essere più composto, meno ribelle; il quarto sembra un pezzo d’arte da museo. C’è un’impaginazione molto regolare, le opere sono quasi tutti murales enormi molto corretti, quasi timorosi del giudizio della critica. Vaffanculo la critica, che spesso non ha quegli strumenti tipici della nostra contemporaneità per capirti, e che magari ti rivaluta a posteriori come “autentico contro il conformismo del momento” che essa stessa ha favorito. 

Fai quello che senti. Se hai voglia di disegnare dei cazzi – lo uso come provocazione – lo devi fare. Ti censurano? Fa nulla, ma sarai vero, sarai vivo.

Anche la grandezza di un pezzo è diventato criterio di valutazione negli anni. È una decisione valida?

C’è questa idea per cui un lavoro più è grande, più è bello. Non è così. Se tu disegni una cosa brutta e la fai di 10 metri, hai disegnato una cosa brutta di 10 metri, non un’opera d’arte. La grandezza della Cappella Sistina non dipende dalle sue dimensioni, ma dal fatto che sia opera di un genio. Questo gigantismo “più è grande, più è figo” per come la penso io è completamente sbagliato. La dimensione dell’opera deve essere funzionale alla narrazione. Tanto per paradosso verrà vista dai più su Instagram. 

Ci sono delle correnti, strettamente legate all’arte canonica, che hanno influenzato il tuo modo di dipingere?

Io sono nato in un ambente urbano. Ho vissuto gli ultimi 30 anni in una casa circondata da palazzi. Il mio universo di riferimento è stato di tipo “geometrico”, ed è questo che ho rappresentato. Per lo stesso motivo mi sono sentito attratto dalle correnti artistiche del primo novecento, ti direi il Futurismo, il Cubismo, il Neoplasticismo, quindi Mondrian, ma senza una vera prevalenza ed è questa la cosa più interessante. Sono partito studiando i disegni di (Antonio, ndr) Sant’Elia, un architetto futurista che immaginò la sua idea di “città del futuro”: le sue architetture, solamente immaginate a causa della sua morte prematura, sono state la base per la realizzazione delle le mie strutture fluttuanti e delle mie lettere. Ad esse ho sovrapposto le influenze provenienti dalle città fluttuanti di Miyazaki, di Star Wars e di molti altri autori legati ai temi del fantastico e della fantascienza. Volevo raffigurare un luogo urbano fluttuante, meno opprimente in cui poter vivere.

Oltre al lettering, ci sono altre forme di illustrazione a cui ti sei dedicato? Penso ai puppet ad esempio.

Non mi sono mai considerato un vero disegnatore di puppet. Ho sempre considerato Mode 2 e altri come i veri creatori di un’arte figurativa riguardante i puppet. Li ho disegnati anch’io, ma ho sempre pensato che le lettere fossero veramente il modo più originale di esprimermi.

Prima di tornare in questi ultimi anni allo studio del lettering, ho disegnato le mie architetture astratte realizzate con la tecnica della pitto-scultura. Sul mio Instagram si possono vedere questi lavori ottenuti ritagliando lastre in legno, dipinte a mano, che vado a incollare su vari livelli in modo da ottenere l’illusione di una vera struttura tridimensionale. Mi hanno dato molte soddisfazioni, ma anche lì a un certo punto mi sono accorto che stavo diventando ripetitivo. Mi sono fermato per dedicarmi alla pittura, anche se facendolo ho iniziato a immaginare nuovi tipi di pitto sculture. 

Hai mai provato a realizzare sculture o installazioni artistiche?

Per quanto riguarda la scultura sì, ad esempio durante la mostra “Street Art, Sweet Art” nel 2007 a Milano, ne portai alcune. L’anno dopo feci la stessa cosa a Roma all’Auditorium di Renzo Piano per la seconda edizione della mostra. Ho fatto sculture veramente grandi, senza pormi il problema di dove metterle, e ovviamente non sono riuscito a venderle. Ora sono in un magazzino.

Mi sono dovuto fermare non perché non mi piacesse realizzarle, ma perché avevo un problema pratico di dove immagazzinarle (ride, ndr).

Per quanto riguarda i tuoi lavori nello specifico: c’è un progetto di cui vai particolarmente orgoglioso?

Io penso che tutti i miei lavori facciano parte di un flusso, di un continuo cambiamento. Sicuramente “Forza dello spirito” che realizzai inizio anni ‘90 è un graffito che racchiude tutti gli elementi distintivi del mio dipingere di quegli anni: potenza e complessità. Anche le sculture dei primi anni, del 2007, sono veramente d’impatto. Io ho però questa abitudine, brutta o bella non saprei, di disinnamorarmi subito dei lavori che ho fatto. Misuro me steso per quello che sto realizzando oggi.

Non sono uno di quelli che va in giro tronfio nel petto esibendo il proprio status di writer anziano. Mi stupisco quando la gente e i writer più giovani sanno chi sia, perché a me piace misurarmi col presente. 

A te non è mai successo di sentirti scarico, artisticamente parlando?

Se un writer accetta e decide di continuare a dipingere (o di creare) deve misurarsi con l’oggi: non mi piacciono quegli artisti che fanno lavori obiettivamente brutti e pretendono di essere considerati bravi per il solo fatto di dipingere da tanti anni. Ci sono writers che ogni tanto cercano di tornare all’attenzione del mondo, ma sono veramente scarichi di tutta l’energia e potenza che avevano in quegli anni. 

Dopo il periodo universitario mi rimisi a disegnare e impiegai anni prima di fare qualcosa che avesse senso mostrare agli altri: mi rendevo conto che avevo perso quella fame creativa che avevo prima; l’ho ripresa sotto altre spoglie, perché sono diventato più riflessivo e meno impulsivo, però ci è voluto tempo. Io sperimento continuamente ed è faticoso: molti lavori che faccio dopo un po’ non mi piacciono più, perché sono già passati rispetto un’evoluzione che sto portando avanti.

In conclusione. Come immagini l’arte di Rendo da qui ai prossimi anni? 

Onestamente, non lo so! Non so come immaginarla, perché non so cosa succederà domani. Magari vado a vedere un film o rivedo un vecchio film e l’idea che mi viene fuori la rielaboro in funzione di ciò che sto facendo in questo momento. Mi è capitato spesso di vedere cose che non mi davano nessuna ispirazione, ma averle riviste in un certo momento ha cambiato il destino di un nuovo lavoro. È un mondo in itinere ed è questa la figata: è questa la forma di ribellione che io applico a me stesso.