L’estate 2022 è la prima, dopo due anni di restrizioni, a essere incentrata sul divertimento, sulla musica e sulla spensieratezza: tre parole d’ordine per un qualsiasi festival. Ed è proprio questa leggerezza a essere la preferita dalle nuove generazioni, che, parlando di festival, hanno una vasta scelta tra il Lollapalooza a Chicago e a Berlino, l’Austin City Limits Music Festival o il Polifonic in Italia. Si tratta di eventi musicali che – chi più chi meno – attraggono non solo persone, ma soprattutto numeri.
Tali manifestazioni, per non citare le più note, stanno infatti diventando grandi “sagre” del marketing, capaci di far raggiungere a brand internazionali milioni di spettatori, e i mezzi per farlo sono tanti. Una combinazione che tecnicamente non si addice a esperienze che inizialmente sono nate per essere distanti dal consumismo e per abolire le differenze sociali.
@florin what’s your favorite?😍🎡 #coachella #fyp ♬ Hung Up (SDP Extended Vocal) [Edit] – Madonna
D’altronde, il Coachella e il Glastonbury Festival – probabilmente gli eventi musicali più celebri e apprezzati degli ultimi anni, non esclusivamente per la musica – sono figli dell’arcinoto festival di Woodstock, tenutosi tra il 15 e il 18 agosto del ‘69, il quale ha rappresentato l’apice della controcultura hippie, nata in America tra la metà degli anni ’60 e la fine di quest’ultimi con l’intento di rifiutare apertamente lo stile di vita borghese e la guerra del Vietnam – scontro armato che durò una decina d’anni – mediante una rivoluzionaria libertà sessuale, la sperimentazione di droghe “naturali” come l’oppio, l’uso di allucinogeni e la convivenza interrazziale.
Se oggi, però, festival come il Glastonbury, il Burning Man eil Coachella sono delle occasioni sia per l’alta moda che per il fast fashion, allora c’è uno sconvolgimento della tradizione che porta ideali estetici alle volte svuotati da ideali culturali. “Sconvolgimento” perché il Woodstock era l’antimoda per antonomasia, che proprio in questo suo esserne lontano è riuscito a dare vita a trend intramontabili come i sandali in cuoio o corda, i pantaloni a zampa d’elefante, le bluse over ed etniche e i cappotti scamosciati, sebbene i figli dei fiori e le donne del movimento hippie, tra cui Joan Baez, attivista e compagna di Bob Dylan, Janis Joplin e Grace Slick – cantante del gruppo Jefferson Airplane -, che facevano uso della musica come massimo mezzo d’espressione, erano totalmente ignari e contrari all’idea di diventare delle fashion icon.
Si può parlare però di antimoda, almeno per i tempi, perché i giovani che sposavano quegli ideali acquistavano nei mercatini delle pulci vestiti comodi e poco ricercati, precedendo l’oggi virale second hand e prediligendo tessuti naturali e colorati.
Lo stile ottenuto risultava non proprio curato, quasi disordinato, ma sintomo di una libertà che tra le donne hippie si trovava anche nel rifiuto del reggiseno e delle minigonne, sostituite con ampi gonnelloni, radicalmente opposti. Una femminilità nuova, sicuramente più sbarazzina e forte, estremamente coerente con la definizione di tendenza di Germana Marucelli, stilista italiana, la quale affermava poco tempo prima che “quando una cosa si esaurisce, dà sempre vita a una in opposizione”, equiparando la moda alla sociologia. Le similitudini con i trend attuali, però, sono sbalorditive perché già da allora si incominciavano a discutere i limiti tra l’abbigliamento maschile e quello femminile, adottando tuniche e capi unisex e introducendo il concetto di fluidità di genere, rafforzato dall’avvento del glam rock di David Bowie.
Perché, però, è ritornato l’interesse per manifestazioni in lande desolate e assolate o nella campagna inglese tormentata da temporali e freddo? La risposta è semplice: lo spettatore è tornato a cercare esperienze totalizzanti, per divertirsi e distrarsi.
Alla base del mito del Coachella, inoltre, c’è il sogno americano e la celebrity culture; infatti, l’evento che si tiene annualmente all’Empire Polo Club ottiene milioni di visualizzazioni, like e ricondivisioni tra Instagram, TikTok e YouTube da quando celebrità come Robert Pattinson, Alessandra Ambrosio e Kendall Jenner hanno iniziato a frequentarlo, prima spontaneamente e successivamente a pagamento. Ed è successo lo stesso per il festival di Glastonbury che ha attirato gente da tutto il mondo dopo che Kate Moss, indimenticabile con i suoi stivali Hunter e lo shorts inguinale, Adele, Amy Winehouse e altri membri dello showbiz hanno sfoggiato i loro outfit tra fango e pioggia. Ora quei personaggi sono stati sostituiti da Billie Eilish, Dua Lipa e Olivia Rodrigo, con quest’ultima che porta avanti il trend delle Bratz e non delle Barbie.
@hannahlouisef what to wear to a dry(ish?) Glastonbury! I know I can’t take two pairs of cowboy boots but I don’t want to choose
♬ Electric Feel – MGMT
A questo punto il marketing, pilastro di una società in movimento grazie alla pubblicità, ha puntato tutto su quell’estetica che sta facendo impazzire i giovani, bombardando qualsiasi profilo di contenuti sponsorizzati, chi prediligendo semplici regali e chi finanziando il viaggio e l’esperienza a influencer di ogni genere. Wrangler, brand specializzato nel denim e nemico di Levi’s, è così interessato ai festival che collaborerà con la società multinazionale di intrattenimento Live Nation, investendo non solo nel Lollapalooza, ma anche nell’Austin City Limits, affinché vengano installati alcuni pop up, visionabili sui loro canali social. Addirittura, per rendere l’esperienza dell’acquirente più allettante, è possibile modificare sul posto – in simpatici camper riadattati – alcuni capi in denim.
Anche Yves Saint Laurent nel 2019 portò al Coachella la “YSL BEAUTY STATION”, un pop up perfettamente instagrammabile che riprendeva i tipici benzinai californiani. Revolve, uno dei brand fast fashion più famosi del momento, invece, si inserisce nel settore organizzando un vero e proprio festival, il Revolve Festival, nello stesso periodo del Coachella, ospitando celebrità e fashion blogger anche italiani.
Talvolta, però, l’autonomia può portare con sé alcune problematiche ed è proprio questo il caso, perché la gestione del Revolve Festival non è stata delle migliori; tali manifestazioni, prevedibili e gestibili fino a un certo punto, possono diventare un’arma a doppio taglio, causando anche pubblicità negativa, indignazione generale e pesanti critiche se le cose non vanno come sperato.
@averiebishop I hope you made it to the festival @kate bartlett !! #revolvefestival @revolve ♬ original sound – Aves
Brand come Gucci, d’altra parte, non vogliono solo scatti sui social e paparazzate su magazine di moda, convenienti ma limitanti, bensì necessitano di momenti iper-virali come l’esibizione di Harry Styles e quella dei Måneskin, apprezzatissimi da Alessandro Michele e dall’America. I vecchi metodi per comunicare e mostrare al mercato i prodotti non sempre sono obsoleti, forse possono essere più impattanti di qualsiasi altra tecnica. E la stessa decisione è stata presa da altri brand del lusso come GCDS e Fendi, sebbene abbiano preferito alcune star del web come Veronica Ferraro e Leonie Hanne.
Depop ha incrementato la propria visibilità portando alcuni influencer in giro per i maggiori festival della Gran Bretagna sponsorizzando l’abbigliamento vintage, proprio quello preferito dagli hippie e ora dagli appassionati di moda. La stessa iniziativa è stata portata avanti da Hunter, brand di calzature che ha coinvolto giovani tiktoker per avvicinarsi alla Gen Z e non limitarsi alla precedente, cercando anche di creare momenti iconici come le foto di Kate Moss e Alexa Chung con i loro prodotti.
Il vero cambiamento, però, è avvenuto con il successo dei social media, i quali hanno accorciato le distanze e avvicinato persone di qualsiasi tipo a eventi come il Coachella, già esistenti ma imparagonabili all’odierno apprezzamento. A questo punto l’impero della moda, che cerca continuamente di espandersi, è riuscito a insediarsi in un posto in cui non era, apparentemente, ben accetto. Oggi, infatti, non è più possibile identificare uno stile puramente hippie poiché è stato sostituito da quello boho-chic, ma anche country-chic, che ASOS, Forever 21 e H&M prediligono, adattandosi all’ormai noto “Coachella Style” o alla stereotipata “Cali Girl” – rappresentata appieno da una giovane Gigi Hadid o dalle ancora ventenni Valentina e Chiara Ferragni -, che consiste in vestitini bianchi o iper colorati, spesso in maglia, arricchiti da camperos, accessori di ogni tipo e wavy hair.
Non è un caso che molti vogliono indossare outfit simili a quelli delle star che partecipano a queste iniziative; sono infatti tantissimi i contenuti e gli hashtags in cui si cerca di riproporre look simili, o addirittura uguali, a quelli più virali, influenzando anche la produzione di Shein, Zara e tutto il mondo del fast fashion.
La struttura alla base di tali manifestazione è rimasta la stessa, ovvero musica e divertimento, ma la moda ha sgomitato per sfruttare al meglio anche quelle occasioni in cui vinceva l’anomalo e il diverso, e non il capo di tendenza che si può vedere su chiunque tra piattaforme social e strade di città. La genuinità tipica di eventi del genere, perciò, è stata sostituita dalla necessità del guadagno e dalla frenesia del lavoro, riuscendo a inserire sponsor che nel 1999 – primo anno in cui si tenne il Coachella – non pensavano minimamente di mescolare l’esclusivo lusso con festival aperti a tutti.
Forse, però, il senso dei più celebri festival occidentali si è perso e l’Homecoming, nota manifestazione che si tiene a Lagos – città della Nigeria -, ce lo dimostra, perché l’unico obiettivo di questo amplificatore culturale è riunire gente più disuguale possibile, affinché i giovani nigeriani e non possano sentirsi parte integrante di una vera comunità, priva di barriere e ricca di opportunità, attraverso noti cantanti della Gen Z africana. La moda in questo piano ideale è coinvolta, infatti lo street style è il secondo mezzo – dopo la musica – che è riuscito a farci conoscere più da vicino una realtà a noi estranea, senza monopolizzare la scena o annullare le peculiarità del gusto del singolo. E dando uno sguardo più da vicino, sembra che quella passione per gli anni 2000 sia veramente condivisa da tutti.
Ma è meglio agire come il Glastonbury Festival, che lascia spazio alla gente comune, oltre che ai cantanti che devono esibirsi, o meglio coinvolgere gli influencer spostando parte dell’attenzione sulle mode? Una vera risposta non c’è, o meglio, non ce n’è una sola, perché entrambi, nonostante abbiano un’organizzazione radicalmente differente, ottengono anno dopo anno grande successo ammaliando gli amanti della musica.
L’Italia, in tutto questo, celebra la musica italiana attraverso eventi come il Festival di Sanremo dagli anni ‘50 in poi e la Mostra internazionale di musica leggera dal ‘65 al ‘93, mostrando al mondo tutt’altro e facendo emergere i grandi della nostra tradizione musicale come Mina, Gino Paoli, Ornella Vanoni e Milva, accompagnati da un abbigliamento elegante ma non rigido alla Gianfranco Ferré, Giorgio Armani, Krizia e Marucelli, perciò distante da vite basse e coroncine di fiori. Nella penisola italica mancava lo spazio per accogliere eventi come quelli precedentemente citati e, inoltre, mancavano le motivazioni per appoggiare con tanto vigore una ribellione come quella portata avanti dai giovani americani, almeno all’inizio. Per questo il nostro territorio non ha accolto eventi del genere, limitandosi a qualcosa che sapeva fare bene: lo spettacolo. Ed è proprio così che si è diffuso l’arcinoto concetto di Made in Italy e la credenza popolare che gli italiani si sappiano vestire con gusto, preservando ugualmente il concerto di esclusività.
Negli anni a seguire arriva il Festival Bar, competizione musicale che ha girato l’Italia dal ‘64 al 2007, sdoganando la nostra interpretazione di “festival”. Non è presente una sinergia tra performance e pubblico, vengono infatti rispettati i ruoli introdotti dalla popolare manifestazione sanremese, nonostante sia rifiutato il rigore di quel tempo e siano sostituite le melodie all’italiana con altre più pop e commerciali. Ora l’Italia ha l’unico evento lontanamente simile al Coachella ed è il Polifonic, che si tiene sia a Milano che in Puglia.
Nella storia dei festival all’italiana, sebbene ci siano stati dei cambiamenti, non è possibile riscontrare un decisivo punto di svolta, bensì un necessario adattamento alla società, come quello che ha rivoluzionato il concetto di festival anglosassone, probabilmente perché si è sempre parlato di format televisivi e mai di eventi volti a manifestare liberamente sé stessi, almeno direttamente. Ad ogni modo, fin dagli esordi la televisione viene finanziata dalla pubblicità, perciò non è insolito vedere spot, iniziative sponsorizzate dai brand e lotte tra stilisti per vestire cantanti, conduttori e invitati che generano tendenze.
Ormai è ben noto che l’estetica dei festival venga apprezzata globalmente – YSL, Etro e Calvin Klein nel tempo hanno perfino rivisitato con una certa distanza tragica i caratteri propri della moda tipica degli anni ‘70 -, ma è ancora più bello vedere il modo in cui il fashion system reagisce alla globalizzazione.
La migliore mossa di marketing, a questo punto, può solo essere fedeli a sé stessi, e i dati parlano chiaro perché i clienti vogliono una solida e trasparente brand identity, in aggiunta a prodotti di qualità ed esperienze coinvolgenti. E quella ossessione momentanea per il Coachella probabilmente un giorno finirà, lasciandosi poco alle spalle a differenza di quei momenti che hanno cambiato la storia del costume e non solo.