Nell’ultimo decennio, la pizza napoletana ha continuato la sua ascesa nella cultura popolare della capitale del Giappone.
Un paradiso gastronomico, Tokyo è famosa per la cultura culinaria ricca ed estremamente differenziata che va ben oltre il washoku (la tradizionale cucina giapponese). Vagando per la città è possibile trovare un vasto numero di attività legate allo yoshoku (il cibo occidentale) di primissimo livello. Quando si tratta di elaborare piatti stranieri con l’aggiunta di un piccolo tocco locale, poche città al mondo, forse nessuna, può competere con la capitale giapponese. La pizza napoletana ne è un perfetto esempio.
La pizza è stata introdotta in Giappone dopo la Seconda Guerra Mondiale. Per decenni, però, molti esercizi commerciali dediti alla cucina italiana si sono focalizzati esclusivamente sulla pizza di ispirazione romana, con crosta sottile. Tutto è cambiato negli anni ’90, quando la classica pizza napoletana, sebbene realizzata con un particolare tocco giapponese, fu introdotta agli abitanti di Tokyo. La crescita della sua popolarità fu costante, seppur lenta, quantomeno agli inizi, fino ad arrivare all’esplosione degli ultimi dieci anni. Sempre più ristoranti e pizzerie in città ora servono una pizza dal cornicione morbido e soffice. Molti di questi esercizi sono addirittura certificati dalla AVPN (Associazione Verace Pizza Napoletana), con tanto di diploma orgogliosamente esposto al pubblico. Nonostante la pizza sia spesso vista nel mondo come una pietanza economica, un cibo da strada, la variante napoletana ha raggiunto prezzi importanti in Giappone, al punto da essere quasi un lusso, un piatto per le grandi occasioni da festeggiare.
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Non esiste posto più famoso per una pizza in tutta Tokyo di Seirinkan, già noto al grande pubblico per essere stato incluso anche nella serie Netflix di David Chang, Ugly Delicious. Il personaggio televisivo e fondatore del gruppo di ristoranti Momofuku ha detto: «la miglior pizza del mondo si mangia a Tokyo», dopo aver visitato la nota pizzeria. A condurla è Susumu Kakinuma, un leggendario pizzaiolo che una volta fu descritto dalla CNN come il “primo ministro della pizza di Tokyo” ed è spesso considerato il principale responsabile dell’introduzione della pizza napoletana in Giappone.
«Non ero particolarmente interessato a cibi e bevande quando ero più giovane» dice Kakinuma «le mie passioni erano la musica del passato e le macchine, due cose che hanno finito per influenzare drasticamente la mia carriera nel mondo delle pizze. Non a caso, la prima ragione per cui sono stato in Italia fu una ragazza che avevo conosciuto mentre lavorava part-time in un’autofficina che amavo frequentare. Iniziammo a frequentarci e un giorno mi portò nella sua città natale, Napoli, nell’estate del 1983. Non potevo credere al fatto che stessimo facendo colazione con la pizza. Mi ricordo ancora il sentimento di nostalgia che mi ha colpito quando ho dato il mio primo morso. Aveva il sapore di qualcosa che poteva abbinarsi bene con una canzone di una volta. Qualcosa come i Beatles. Soprattutto i Beatles». Kakinuma ha finalmente trovato quello che in Giappone viene detto ikigai — la sua ragione di essere.
Riuscì a tornare a Napoli nel 1994, con l’obiettivo di rimanerci un intero anno per imparare a fare la vera pizza napoletana dai più grandi esperti del mestiere. Purtroppo, i ristoratori locali lo vedevano più come un sosia di Bruce Lee piuttosto che uno chef. Nessuno gli diede una chance, motivo per cui si impose di imparare i concetti di base in maniera autonoma, cosa che fece mangiando più pizza possibile. Tornato nella sua casa originaria nel 1995, ha poi aperto Nakameguro Savoy (ora una catena di ristoranti, anche se la location originaria è stata successivamente riaperta col nome di Seirinkan), che serviva solo due tipi di pizza: margherita e marinara. Queste però erano diverse da qualsiasi altra pizza già presente a Tokyo, così come erano diverse da quelle che si potevano trovare a Napoli per via degli ingredienti giapponesi e del cosiddetto salt punch, l’uso di una maggiore componente salata. «Quei giorni sono stati i più eccitanti» ricorda Kakinuma, «non avevo la minima idea di quello che stavo facendo, ma nessuno a Tokyo conosceva davvero la pizza napoletana, quindi non era un problema. Al tempo stesso, però, c’era una certa fascinazione verso questo prodotto per via della sua storia. Sono certo che sia questo uno dei motivi per cui è diventata così popolare qui. Per me era importante fare le cose a modo mio: la mia salsa, il mio formaggio, la mia pizza. D’altronde è ciò che spesso accade in Giappone, ci piace prendere spunto da idee provenienti da oltreoceano e reinterpretarle a modo nostro».
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La pizza di Savoy ha ispirato una nuova generazione di pizzaioli talentuosi e tecnicamente capaci. Shogo Yamaguchi, per esempio, era solito sedersi al bancone del ristorante con un foglio e una penna per prendere appunti, registrando ogni mossa del maestro. A sua volta, Shogo ha finito per aprire Frey’s Famous Pizzeria a Roppongi, uno dei distretti più trendy di Tokyo, un accogliente ristorante che ha attratto molti ospiti di alto profilo quali Dave Ellefson dei Megadeth e Howie Dorough dei Backstreet Boys, che hanno definito la sua pizza “la migliore del Giappone”.
Altri apprendisti famosi includono Kengo Inoue, che ora porta avanti l’arcinota Pizza Dada nella vecchia capitale di Kamakura, appena fuori Tokyo, e Daisuke Nakamura, proprietario dell’ugualmente celebre e rispettata pizzeria Bacar Okinawa nel Giappone meridionale. Dopo aver scritto a Kakinuma per imparare dalle sue conoscenze, Nakamura ha poi tramandato quanto appreso a Tsubasa Tamaki, che ha aperto Pizza Strada nel 2011. A sua volta ha passato le redini dell’attività al suo apprendista Hiroaki Kaneshiro prima di aprire Pizza Studio Tamaki (PST) a Roppongi nel 2017. Per secoli, la tradizione culinaria giapponese, e in generale quella delle tecniche artigianali, si è incentrata attorno al sistema insegnante-apprendista, una cultura che è estremamente viva anche oggi.
Come è normale, a volte l’allievo supera il maestro. Molti potrebbero dire che questo è il caso di Tamaki. La pizza napoletana di PST è spesso considerata la migliore di Tokyo. Vero, il proprietario potrà non essere mai stato a Napoli, ma la sua passione per questa professione non è da mettere in dubbio. Ogni cosa all’interno della sua pizzeria è stata pianificata meticolosamente, dal design del forno (ribassato per fare in modo che l’aria non rimanga intrappolata al suo interno) fino al tipo di legno, ovviamente giapponese, utilizzato per fare il fuoco. Alcuni ingredienti sono importati direttamente dall’Italia, altri invece provengono da piccoli produttori giapponesi. Quando si parla di qualità, Tamaki non scende a compromessi, accetta solo il meglio del meglio.
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«Ho lavorato da Savoy per cinque anni: per breve tempo sono stato sotto la supervisione di Kakinuma, ma principalmente ho imparato da Nakamura» ricorda Tamaki. «È stata un’esperienza fantastica, ma successivamente ho sentito la necessità di cambiare stile, qualcosa che sentissi maggiormente mio. La farina che uso, ad esempio, è creata appositamente per PST. Uso anche alcuni ingredienti che non si trovano altrove perché voglio davvero lasciare un segno personale sulle mie pizze, prodotti che descriverei come leggeri e non gommosi. Non ho mai cercato di realizzare quello che tutti definirebbero “autentica pizza napoletana”, quindi è difficile fare paragoni, ma credo che ciò che rende gli chef giapponesi diversi sia la filosofia del omotenashi, ovvero dedicare tutta l’attenzione e il lavoro nel far sì che l’esperienza degli ospiti sia la migliore di sempre».
Pizzaioli come Tamaki, Nakamura, Inoue, Kaneshiro e Yamaguchi non si sono mai limitati a osservare i propri mentori in maniera casuale, cercando di apprendere qualche segreto qua e là. Dietro c’è molto di più. Ci sono voluti anni di dedito servizio per raggiungere le vette di abilità di cui parliamo ora. Fin dal principio, questi shokunin (artigiani) erano determinati a portare le loro capacità di pizzaioli a un livello superiore. Hanno lavorato giorno e notte, hanno osservato le lavorazioni intensamente per carpire ogni singolo dettaglio dai loro maestri. Solo allora hanno capito che avrebbero potuto sviluppare un proprio stile e creare una pizza napoletana che si distaccasse da tutte le altre.
Come per le pizze, anche i ristoranti hanno una grande varietà di decorazioni ed espedienti estetici, spesso con una forte influenza italiana. Kakinuma, invece, ha deciso di seguire una strada molto più personale a Seirinkan, inserendo memorabilia storici dei Beatles in tutto il suo locale. La Pizzeria e Trattoria da ISA, condotta dal tre volte Campione Mondiale di Pizza Hisanori Yamamoto, è un ristorante senza troppi fronzoli, con un’atmosfera viva e fervente, più vicino a ciò che ci si aspetterebbe di trovare a Napoli. Poi c’è anche la Pizzeria da Peppe Napoli Sta’ca, di proprietà del nativo di Napoli Giuseppe Errichiello, un luogo decorato interamente di azzurro, in omaggio alla squadra di calcio S.S.C. Napoli.
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Ci sono anche diversi ristoranti specializzati in pizza napoletana molto intimi, e per questo diventati destinazioni ambite per appuntamenti romantici. Come ad esempio Bella Napoli. Spesso considerato un prodotto di alta qualità, questo famoso piatto italiano è diventato ormai una scelta popolare per le coppie che cercano di affrontare una serata romantica a Tokyo. E perché dovrebbe sembrare strano? D’altronde, considerato l’impegno che i pizzaioli giapponesi mettono nella loro arte, è più che giusto. Si ritorna sempre a ciò che Tamaki diceva parlando della filosofia di omotenashi e il conseguente desiderio di fare sempre un passo in più per i propri ospiti. Questi chef sono estremamente appassionati del proprio lavoro e ciò si riflette nella qualità del cibo.
«Alcuni pizzaioli imparano il mestiere in Giappone, altri vanno a studiare a Napoli, ma per tutti l’obiettivo rimane il medesimo: portare gioia ai propri clienti» dice Kakinuma. «La musica coinvolge l’udito, l’arte gli occhi e il profumo l’olfatto. Il cibo, al contrario, è costituito di tutti questi elementi, è un’esperienza sensoriale completa. Ti attraversa il corpo e poi ne fuoriesce. È una componente culturale che parla a tutti. C’è qualcosa di unico in merito ed è per questo che amo fare il mio lavoro».