Dal poliestere vergine al poliestere riciclato, la plastica è la dipendenza della moda contemporanea. Tra i suoi primati vi è quello di essere la fibra più utilizzata a livello globale, pari al 54% della produzione tessile, oltre che la causa prima dell’eccesso produttivo – e, di conseguenza, consumistico – del settore moda. Un eccesso produttivo che, a ben guardare, è direttamente proporzionale al costo economico del poliestere – e non, chiaramente, a quello ambientale. Il fatto è ben spiegato dal Presidente dell’European Innovation Council Michiel Scheffer, il quale, in un lungo editoriale pubblicato su LinkedIn nel 2021, tratteggia un quadro affatto ottimistico, fatto di vicoli ciechi, realtà edulcorate dagli interessi, prospettive falsate e dati inquietanti. Già allora la domanda dei tessili era superiore ai 100 milioni di tonnellate l’anno, con una crescita media pari al 5% l’anno. Già allora, la sfida “Sintetico Vs Naturale” era in corso, senza alcun vincitore decretato. Sono trascorsi alcuni anni e il monopolio delle grandi multinazionali si è esteso ulteriormente, con buona pace di chi in quella sfida ci credeva. Il mercato del poliestere punta, in definitiva, a crescere. Ma quali sono i costi di tale dipendenza? E perché quello di un mondo plastic-free è un immaginario favolistico che di reale ha ben poco?
Ai dati proposti nell’analisi di Scheffer, segue, nello stesso editoriale, un paragone inteso a portare i grandi numeri citati su un piano di realtà: ciascun essere umano mangia e beve circa 700 kg di prodotto commestibile l’anno e consuma circa 4400 litri di petrolio l’anno. Il consumo di fibre tessili è l’equivalente di tre giorni di petrolio e di otto giorni di cibo e alimenti. È per questo che negli ultimi cinquant’anni i tessili sono diventati un flusso secondario dell’industria petrolchimica. Dei 100 milioni di tonnellate di tessili l’anno menzionati, oltre il 70% è costituito da fibre di policondensazione – poliestere e poliammidi – il 20% circa è rappresentato dal cotone, e il restante 10% è ripartito fra viscosa, acrilici e lana. Solo una percentuale minima è costituita da fibre ‘realmente’ sostenibili e innovative – a dircelo, è sempre il consigliere europeo per l’innovazione Scheffer. Bucce d’uva, scorze di ananas e scarti simili sono tra questi. Scarti naturali che, potremmo pensare, dovrebbero valere meno di un pugno di plastica, eppure così non è.
@cbc Sustainability is selling, and some of fashion's biggest brands say they've gone green. But the latest investigation by CBC Marketplace has found they're not going far enough. CBC Marketplace exposes the problem with polyester, and the fashion industry's reliance on fossil fuel derived synthetics. They reveal why some of your clothing is far from the sustainable solution you've been sold on. Stream the full Marketplace episode, Exposing the Secrets of Sustainable Fashion, on @CBC Gem via link in bio. | #CBCMarketplace #Sustainability #recycled #polyester ♬ original sound – CBC
Negli ultimi quarant’anni il prezzo del poliestere è passato da 10 dollari al chilo ad 1 dollaro al chilo. Nei paesi europei è più economico del petrolio: l’unica tassa che vi si applica è l’IVA, e non vi è nessuna accisa applicata, vale a dire nessuna imposta indiretta quale si ha invece su prodotti equamente nocivi – sebbene per l’uomo, e non per l’ambiente – come alcool e tabacco. A ciò si aggiunge l’inganno del poliestere riciclato. Difatti, benché il poliestere sia facilmente riciclabile tramite processi meccanici, fisici o chimici, la qualità del prodotto ne risente al punto che è necessario integrare le fibre riciclate con altre vergini – basta leggere l’etichetta di un abito posto nella sezione Sostenibilità di qualsivoglia marchio, e nella maggior parte dei casi troverete che solo una minor percentuale è, effettivamente, poliestere riciclato. Il fatto che poi tali processi non siano altro che ulteriori fucine di gas inquinanti, è un’altra storia.
In un quadro tanto deprimente, il dato incoraggiante sarebbero i 500 milioni di euro che nel 2023 risultano essere stati spesi in start-up di ‘next gen materials’, anglicismo cool per dire ‘materiali di nuova generazione’. A suon di lanci, collaborazioni, partnership e cooperazioni virtuosistiche, più che virtuose, pare di essere sommersi da materiali innovativi e sostenibili tanto quanto dalla plastica. Ma è solo un’illusione. L’ago della bilancia rimane il prezzo dei processi: per quanto una buccia di banana possa parere poca cosa, trasformarla in una borsetta appetibile al gusto dei compratori non lo è affatto. Per comprendere la difficoltà della questione è utile osservare il caso di ReNewcell, l’impianto tessile svedese cui si deve il brevetto della Circulose®, una pasta prodotta al 100% da rifiuti tessili. Avrebbe dovuto rovesciare il business della moda, trasformandolo da estrattivo a rigenerativo, forte anche di accordi con gruppi quali H&M e Inditex. E ci sarebbe anche riuscito, se i costi, il ritrarsi degli investitori e le falle nel sistema moda non l’avessero costretto alla bancarotta. Un fallimento non tanto o solamente di ReNewcell, quanto di tutti.
@sustainablefashionfriend The more you know ✨ #greenwashing #sustainablefashion #didyouknow #climatechange #fyp #fashiontok #deinfluencing ♬ original sound – AMOREELLAH ART
Il prezzo rimane un punto nodale: finché il poliestere vergine continuerà a costare così poco, privo quale è di un adeguato sistema di tassazione che favorisca altro, ogni altro business di materiali sarà destinato alla moria. E tuttavia, le risorse necessarie alla produzione di fibre naturali non sono da meno. Le fibre a base biologica necessitano infatti di un uso consistente di suolo e acqua, al punto che un mondo di sole fibre naturali non solo non è immaginabile, ma nemmeno auspicabile. E se la battaglia “Sintetico Vs Naturale” non ha dunque motivo di esistere, qualche fragile prospettiva rimane all’orizzonte. A mostrarcela è il report The Future of Synthetics pubblicato lo scorso aprile dalla piattaforma Textile Exchange. In esso si forniscono alcune linee guida essenziali su come intraprendere un processo di disinvestimento nel poliestere e ‘disintossicarsi’ dalla plastica e dall’estrazione di nuovi combustibili fossili. I destinatari sono, chiaramente, i brand, gli strumenti citati sono sistemi di riciclaggio a circuito chiuso – vale a dire da tessile a tessile – la riduzione dei volumi di materiali prodotti, la sperimentazione interna e lo studio dei nascenti materiali biosintetici – i quali, al di là dell’apparente contraddizione tra bio- e -sintetico, saranno i veri vincitori di una battaglia per ora fallimentare.