Un racconto dell’anno zero dei social network in Italia

È difficile immaginare un modo di raccontare l’approccio ai social network del primo decennio del ventunesimo secolo italiano – senza servirsi di testo – come ha saputo fare @ita_pictures. Pictures from Italian profiles è un immenso archivio di immagini su Facebook, Instagram e da poco anche su carta.

Il progetto è nelle mani di Stefano Frosini, che ne è il creatore e curatore. Stefano, attraverso la selezione di migliaia di fotografie, ha cercato di lasciarci una testimonianza delle diverse epoche della cultura popolare italiana, dall’inizio del secolo scorso ad oggi, dandoci così un’idea molto nitida anche di cosa è stato l’anno zero dei social network nel nostro paese, di come l’approccio agli stessi sia stato vissuto da parte dei primi utenti e poi impresso nelle nostre menti. La raccolta del materiale fotografico, iniziata nel 2017, è il frutto di un’approfondita ricerca nel “sottosuolo dei social”, come lo definisce Stefano all’inizio della nostra chiacchierata. Ha spiegato come, per lui, Facebook fosse all’epoca una “casa”, un luogo dove impiegare il tempo anche per studio e per lavoro, non solo per diletto. Ma questa casa, continua Stefano, stava pian piano cadendo a pezzi: «Era un edificio in rovina, nel cui soggiorno iniziavano a comparire delle “sagome” che fino a quel momento ero riuscito ad evitare, non senza qualche sforzo: mematori poco ispirati, commentatori incalliti, tuttologi di mestiere e fotografi troppo affezionati ai filtri automatici. Ho sentito la necessità quasi istintiva di andare a cercare in cantina contenuti che fossero testimonianze diverse, fresche e autentiche, di quella che era stata l’evoluzione dei nostri costumi nel corso dei decenni e, soprattutto, durante quella cesura rappresentata dai primi anni del ventunesimo secolo. Attraverso un’autonarrazione per immagini, portata avanti quasi inconsciamente dagli utenti (e per questo sinceramente, senza costruzioni posticce o falsificazioni eccessive), mi sono accorto che quel “sottosuolo”, costituito da individui di ogni età e tipologia, offriva, seppur in modo disomogeneo e frammentario, un quadro generale tanto vivido quanto esaustivo della nostra società di inizio millennio».

In questi termini Stefano ci ha raccontato da dove sia partito il suo progetto, che nasce per essere inizialmente un ecosistema digitale strettamente personale, un’alternativa valida a quella superficie sempre meno invitante, la stessa che in quegli anni spingeva migliaia di utenti ad abbandonare la piattaforma in cerca di altri lidi.

«Ho iniziato la mia ricerca principalmente scovando immagini che non avessero filtri, che non si adeguassero a canoni troppo rigidamente prestabiliti, che non sembrassero falsate né costruite. Gite domenicali, pranzi di famiglia, comunioni, assemblee scolastiche: lì mi pareva sopravvivesse una schiettezza che nella maggior parte delle immagini pubblicate sui social stava gradualmente scomparendo ed è proprio quella schiettezza che cercavo di salvaguardare in un archivio che, per quanto accessibile a chiunque, rimaneva all’interno di un progetto privato. Dopo alcuni mesi dalla sua creazione, la pagina, da archivio intimo e personale che era, attraverso una serie di ricondivisioni fortuite, è divenuta una realtà interattiva, un blog che non raccoglieva più attorno a sé soltanto una manciata di lurkers, ma un viavai di utenti che ancora oggi danno il loro contributo, sia inviandomi in privato gli scatti da pubblicare, sia commentando le foto condivise e immedesimandosi».

È notevole l’ascesa del progetto di Stefano, che ci racconta come, secondo lui, le ragioni siano da ricondurre a una “capacità inconscia” dell’osservatore, cioè quella di distinguere, quasi istintivamente, ciò che è davvero rappresentativo e ciò che invece è fasullo o stereotipato. «La risposta che mi dò [per motivare il successo della pagina, n.d.r.] è che spesso – in Italia e non solo – c’è molto altro da raccontare e mostrare (e quindi da ascoltare e osservare), aldilà dei luoghi comuni e degli stereotipi: sono innumerevoli gli aspetti celati o dimenticati che, meglio di quelli evidenti e inflazionati, possono parlare della nostra cultura e che quasi invocano di essere riscoperti ed esposti alla luce».

Scavando tra i contenuti di Pictures from Italian profiles, abbiamo notato quanto le immagini raccolte sembrino appartenere più all’immaginario delle province che a quello delle grandi città, tanto che volendo fare un paragone cinematografico, ci è sembrato utile fare riferimento a realtà come quelle raccontate da registi quali Larry Clark e Harmony Korine, rispettivamente con “Ken Park” e “Gummo”, in cui viene risaltata la noiosa e in qualche modo assurda routine della provincia.

«I paragoni con questi film sono senz’altro calzanti, ma se si vuole indicare un punto di riferimento cinematografico più preciso per quanto riguarda la narrazione per immagini della provincia italiana e dei suoi tratti distintivi, credo che nessun regista sia stato per me più evocativo e d’ispirazione di Federico Fellini. Lì più che altrove ho ritrovato, pur con le dovute distinzioni storiche, meglio rappresentati quegli elementi indissolubili e ricorrenti del contesto liquido e mai del tutto descrivibile che è la provincia. Provincia italiana nella quale anch’io sono cresciuto e che credo sia contraddistinta da un fascino insieme decadente e tragicomico, poiché eternamente sospesa tra lo sforzo goffo di sembrare altro (di sembrare di più), e una forza opposta, quella che la spinge a tornare sempre al suo porto sicuro costellato di tradizioni e sicurezze difficilmente replicabili al di fuori. Credo che, anche da questo dissidio irrisolvibile della provincia con sé stessa e con l’esterno, scaturisca l’elemento del grottesco, presenza costante tanto nella provincia reale quanto nelle sue rappresentazioni più schiette e disincantate. Il grottesco è un elemento destabilizzante: fa immedesimare ma anche respinge, sfugge all’occhio (troppo) vigile del fotografo professionista, ma non è scontato che venga catturato dal fotografo amatoriale o improvvisato. E dunque emerge appieno quasi soltanto per puro caso, spesso nelle foto scattate senza velleità o dedizione, per lo più indipendentemente dalla volontà del fotografo».

I social nel 2022 sono cambiati radicalmente, hanno preso le distanze da quello che furono Netlog o MySpace, le stanno prendendo sempre più anche da ciò che è Facebook. Parallelamente, la genuinità dei contenuti senza filtri o patine è andata pian piano scomparendo dai feed delle nuove generazioni (ma anche delle vecchie), assecondando piuttosto la creazione meccanica di file audiovisivi tramite social come TikTok. La velocità di divulgazione dei contenuti si è decuplicata e anche la fruizione degli stessi è diventata ipertestuale: quello che differisce – in pratica – tra i nuovi e i vecchi social, è l’uso che se ne fa e le forme attraverso le quali si comunica. «Non so se un domani ci rimarrà qualcosa di più di un ricordo sbiadito dei personaggi che oggi spopolano su TikTok ripetendo gli stessi format e le stesse idee, emulandosi a vicenda per una manciata di views in più, ma credo che anche TikTok sia abitato e utilizzato da utenti molto diversi tra loro, e che la gran parte di quelli che cercano di usarlo in modo alternativo e originale operano probabilmente nel “sottosuolo” di cui si è parlato, che quindi, anche su TikTok, meriterebbe di essere scandagliato e approfondito».

A ben vedere, il salto dai vecchi ai nuovi social è come se avesse acuito la distinzione tra due elementi spesso erroneamente assimilati: il grottesco, di cui si è detto, e il cringe.

«TikTok è a tutti gli effetti una grande fabbrica del cringe volontario spacciato per sincero: d’altronde, creare a tavolino situazioni imbarazzanti per far sentire in imbarazzo gli altri è una pratica di intrattenimento molto diffusa, per quanto padroneggiata solo da pochi. Il grottesco, invece, non si fa così facilmente ammaestrare né riprodurre meccanicamente: riesce a nascondersi tra le pieghe delle cose, a sparire e ricomparire a seconda dell’osservatore, del momento in cui si osserva, persino dello stato d’animo con cui si osserva. Il cringe è generalmente poco equivocabile o interpretabile: non per questo finisce svalutato o scartato durante la selezione delle foto che pubblico, ma quando lo includo voglio che non ci sia dietro una volontà, una composizione anche minimamente forzata per ottenerlo, perché in quel caso lo scatto non descriverebbe più un momento in cui tutti possono immedesimarsi, ma si limiterebbe a ricostruirlo in laboratorio, a riprodurlo freddamente: mi viene in mente, come esempio di cringe assolutamente genuino, uno scatto dei primi 2000 che ho pubblicato alcuni giorni fa, in cui sono ritratti fratello e sorella preadolescenti in vacanza ad Alberobello con un trullo sullo sfondo: lei indossa una sgargiante canottiera di Miss Ribellina, mentre lui, tra il fiero e il pentito, sfoggia una di quelle t-shirt tanto in voga fra i giovani turisti dell’epoca, sulle quali si leggevano giochi di parole di rara delicatezza, in questo caso: “Se vuoi un mondo pulito… scopa!!!”. È grande la forza evocativa di quegli anni, delle pose, degli outfit, degli stili, dei meme prima ancora che li chiamassimo così. Credo che ad accentuarla, in noi ex bambini degli anni ’90, sia il fatto che adesso, guardando indietro, ci sembra di aver vissuto la nostra adolescenza nel bel mezzo di una cesura culturale ed estetica tra le più nette della storia recente: uno spartiacque, nell’era dei social network, che sembra aver dilatato il tempo tanto da far sembrare quelle immagini, scattate solo dieci o venti anni fa, dei reperti appartenenti ad epoche e mondi lontanissimi: la nostalgia, per epoche e mondi così lontani in cui però abbiamo (davvero!) vissuto, è se possibile ancora più forte».

La raccolta cartacea di Pictures from Italian Profiles si può acquistare al seguente link.