All’interno della cultura dei Paninari, Bircide è un’istituzione. Uno dei personaggi che rappresenta meglio un’era divenuta iconica e presente in maniera solida all’interno della memoria di collettiva di chi, durante gli anni ’80, amava sfoggiare uno stile unico quanto riconoscibile.
Cosa significava all’epoca essere considerato un Paninaro?
Significava aderire a uno stile di vita ben definito, che dava molte attenzioni all’apparenza e che non riguardava solo l’abbigliamento ma anche il mondo del fitness, tant’è che i Paninari erano anche contro l’uso delle droghe. Sempre dal punto di vista estetico – per intenderci i veri Paninari, che sono anche coloro che hanno tramandato questa cultura fino ai giorni nostri, non possono essere associati agli odierni “figli di papà”. Per permetterci la motocicletta o il piumino Moncler che desideravamo, lavoravamo anche per tre mesi d’estate, ma per noi non era un problema. Facevamo di tutto pur di mostrare ai nostri coetanei che in quel momento stavamo indossando capi costosi e alla moda.
Come si è definito il vestiario del Paninaro?
Il primo step era quello di avere degli idoli e imitare il loro stile riconoscibile. Per me andò così, ricordo che il mio modello di riferimento era Alberto Camerini, un artista italo-brasiliano. Amavo il suo look estroso. Quello che facevamo, insomma, era prendere ispirazioni da input che arrivavano in Italia da culture apparentemente lontane. Un altro momento spartiacque fu l’uscita di “Top Gun” al cinema. Da quel momento tutti bramavano un bomber o uno sherpa. Al di là di “Top Gun”, anche i film italiani dei Vanzina erano molto influenti: bastava che un brand facesse product placement di una motocicletta in un loro film che tutti avrebbero voluto averla. Sostanzialmente i gruppi di Paninari si formarono grazie alle persone che copiavano – e quindi importavano – lo stile di personalità molto influenti all’epoca, come l’orecchino a sinistra di Simon Le Bon dei Duran Duran.
Geograficamente parlando, dove nasce questa cultura?
Ci sono molte leggende attorno alla nascita della cultura paninara, ma la verità indiscutibile è che è avvenuta a Piazza Liberty a Milano. Io sono nato e ho vissuto a Torino, quindi ho “studiato” le stesse dinamiche in due grandi città. Poi ovviamente è un fenomeno che si è spostato molto per l’Italia, perché le persone che andavano in vacanza in Riviera, ad esempio, mostravano il proprio abbigliamento a ragazzi che non avevano mai visto un Moncler, una cintura di El Charro o una giacca Schott. Inoltre, sempre riguardo l’aspetto geografico, c’erano delle grandi differenze. La moda al Sud era diversa, quel tipo di abbigliamento arrivò in altri periodi, mentre a Roma i ragazzi della nostra età indossavano le Clarks, una scarpa che noi Paninari non eravamo soliti mettere.
Che legame c’è tra internet e la conservazione della cultura del Paninaro?
Internet ha fatto ritornare molto la cultura del Paninaro. In realtà non solo internet, ricordo una puntata negli anni 2000 di “C’è Posta Per Te” in cui, non ricordo chi, indossava un paio di Timberland Boot. Comunque, grazie ad internet c’è più conoscenza riguardo alla “nostra” estetica. Dal 2009 ho iniziato a spingere molto su Facebook per riportare in auge questa cultura, dalle Vans alle cinture di El Charro. Ora l’interesse verso il nostro mondo è cresciuto ulteriormente, infatti siamo giunti al rilancio del Maya: la voglia di dare nuova linfa a questo duraturo ciclo è quindi più viva che mai.
Quello del Paninaro era un movimento che inglobava varie sfaccettature, dal cibo alla musica. Raccontaci.
Conducevamo una vita veloce, non vedevamo l’ora di montare sulle nostre motociclette, perciò non avevamo mai il tempo necessario per sederci e ordinare primo, secondo e antipasto. Il nostro luogo di culto era Burghy, un fast food che riprendeva l’estetica del paese a stelle e strisce. Burghy contava moltissimi punti vendita in Italia, che vennero acquistati da McDonald’s. Tranne uno, quello di Casalecchio di Reno. Riguardo la musica, il Paninaro fino all’86 non si riconosceva in un genere musicale. Poi in quell’anno i Pet Shop Boys ci dedicarono una canzone e quindi ci avvicinammo a un genere ben definito. Non ascoltavamo musica italiana, i nostri miti erano principalmente gli Europe, Alphaville, Modern Talking e Duran Duran.
Il capitolo Moncler invece come si sviluppa?
Il boom c’è stato nell’inverno dell’85, anno in cui in Italia si verificò una delle nevicate più incessanti. Ciò che piaceva di più del Moncler erano la leggerezza e il colore, l’arancione e il blu puffo erano quelli preferiti da tutti. Prima dell’85 non andavano di moda questi colori così sgargianti. Il Maya, invece, nasce nel 2008, stesso anno in cui un vasto gruppo di Paninari decide di indossarlo. Il Maya è proprio il capo da passeggiata domenicale, grazie anche al suo cappuccio rimovibile.