“UTOPIA PROJECT” ha aiutato Danilo Paura a dare un senso al lavoro

In “streetwear” c’è la parola street, termine che intendiamo come qualcosa che include tutto ciò che la strada ci restituisce e che oggi porta alla nascita di culture e mode che attraversano tutte le classi sociali, dai playground alle passerelle. L’associazione è facile quando si pensa alla street art, non solo perché è realizzata in maniera non convenzionale, ma anche perché tecnicamente è proibita, non si potrebbe fare. Ciò rende tutto ancora più crudo, forte. Immaginatevi se Banksy non avesse rischiato di essere arrestato. L’arte di strada non sarebbe nemmeno nata, così come la sua diffusione. Il legame tra ciò che si può fare e cosa no è sottile, e magari sarebbe stato considerato arte solo molto tempo dopo rispetto alla sua nascita, ma all’inizio è solo un tentativo di andare contro le norme scritte. La street art è appropriazione di suolo pubblico ma in un certo senso anche riqualificazione. One man’s trash is another man’s treasure. Partendo da questo concetto, pensate quanto è street fare un maglione che nasce da pezzi di scarto, elementi che in teoria non sono di nessuno, ma in realtà sono di Raf Simons, di Acne Studio e altri brand. È sartoria, è riutilizzo, ma una chiave di pericolo c’è. Quel punto di maglieria non è brevettato. Ciò lo rende veramente street.

Da qui nasce “Utopia Project”. Utopia è tecnicamente qualcosa di ideale ma irrealizzabile. Noi lo facciamo vivere davvero. È un termine utilizzato in maniera particolare. Si tratta di mettere assieme diversi artisti, i miei artisti preferiti, quantomeno nel mondo della moda, per farli lavorare assieme al fine di qualcosa di etico. Parliamo di progetti di maglieria nati dal recupero totale di materiale di scarto, un maglione che deve essere concepito in maniera innovativa.

Ci sono diversi passaggi. Il primo nasce dalla ricerca del materiale, andando a rovistare tra gli scarti, letteralmente nella spazzatura. Poi si va a identificare dove questi pezzettini possono inserirsi su un cartamodello che abbiamo ingegnerizzato e diviso in tanti piccoli reparti. Ogni pezzettino ha forma e dimensione diversa, per cui solo grazie a un cartamodello del genere possiamo recuperare anche i più piccoli lembi e non sprecare nulla. In questo modo possiamo anche realizzare un maggior numero di maglioni. Si tratta di un prodotto davvero difficile da realizzare perché fatto a mano da persone che lavorano un anno sul progetto, considerando tutti i passaggi.

“Utopia Project” non è legato al riciclo, ma al nostro lato etico. Ma etico vuol dire molte cose. Può essere qualcosa che fa del bene, può essere solo un asterisco per rassicurare partner e acquirenti, ma anche qualcosa che ci fa sentire meglio. Insomma, etico ha tanti significati, alcuni più sentiti, altri meno. In azienda siamo abituati a darci delle risposte prima di farci delle domande: se una cosa non rispetta determinati standard, determinati crismi, per noi non va portata avanti. Questo maglione per noi diventa il motivo per cui portare avanti tanti altri progetti. Per noi ha un simbolo e ci comunica un’energia e un’importanza speciale. Non è un maglione che deve piacere per la sua estetica, deve entrarti dentro

Tutti possiamo fare qualcosa che ci fa sentire meglio, che crea del bene, e noi abbiamo scelto questo perché la maglieria rappresenta al meglio la nostra vena artistica. Essendo un lato su cui lavoriamo molto, siamo voluti partire dal punto in cui produciamo più sporcizia per creare qualcosa di unico, artistico e interessante, oltre che etico, appunto. Questo progetto è totalmente Made in Italy, realizzato dove vengono create anche le maglierie di Raf Simons, Acne Studio e molti altri brand. Più volte ho lavorato a pochi metri da chi ogni giorno lavora alla maglieria di questi marchi e ammetto che per me è rilevante, perché si respira arte. Questo maglione è quindi un’opera etica, come un racconto di un’eccellenza locale che nasce da un piccolo laboratorio e arriva alle passerelle di tutto il mondo.

Va da sé che ogni maglione vive di una vita propria, ogni capo è infatti unico. Praticamente sono tutti uno-di-uno, la limited edition di sé stessa, sia per concetto che per possibilità. Ogni maglione racconta una storia di cromie, di sistemi. Ogni scelta di componenti e il loro accoppiamento non è casuale. Ciò è complesso perché vogliamo sempre accrescere il volume di un prodotto che pensiamo sia rilevante per noi e per gli altri (siamo partiti con un girocollo, siamo arrivati al cardigan e l’anno prossimo aggiungeremo un altro articolo), ma lavorare con gli scarti non è sempre facile, nonostante questi non siano difficili da trovare. Le criticità ci sono. Una è il tempo. Non posso immaginare questo progetto fatto altrove, perché la manualità che abbiamo qui non c’è da nessuna altra parte. Inoltre questo posto mi ha visto crescere e solo qui trovo una sensibilità così unica. La differenza sostanziale sta qui. Il Made in Italy non è solo fatto di metodi produttivi, ma anche comprendere l’eleganza, lo stile, le forme e la parte artistica, non solo estetica. Non basta un cartamodello, non è un copia e incolla. Serve anima. È criticità, ma anche forza.

Il mio brand si chiama Paura, una parola che mi piace intendere e declinare in molti modi. Dove le difficoltà si trasformano in opportunità, è lì che vive la paura. La criticità è una leva che rende questo progetto ancora più forte. Le criticità sono tali quando vengono smentite. Il non poter garantire un quantitativo è una forza e un danno commerciale. Dovremmo essere felici di produrre pochi pezzi, anche se il mondo della maglieria sta crescendo, motivo per cui ci saranno sempre più scarti: ciò porta vantaggi, nel senso che potremmo realizzare più maglioni, ma questo ha il grande problema di portare allo sviluppo di tantissimi scarti e conseguente inquinamento. Un controsenso. Per noi il business in questo caso arriva dopo. Poi è ovvio, unire la creatività a un fine nobile è il massimo, perché consumismo e responsabilità sono due mondi che ogni azienda vorrebbe unire. 

Realizzare qualcosa di unico è spesso un bel concetto, una volontà collettiva, ma soprattutto qualcosa che aiuta a farci andare avanti. Non si tratta di cambiare il mondo, riscrivere la storia o far parlare di sé, ma solo trovare quel pulsante che, una volta schiacciato, ci aiuti a dare un senso al movimento di tutti gli altri ingranaggi. Chi conosce questo mondo da dietro le quinte si accorge che ci si sta sforzando di andare in una direzione in cui bisogna giustificare determinate vendite e si trova quindi quasi un alibi morale per mettere all’interno delle collezioni quell’etichetta che motiva una sovrapproduzione di tessuto, perché comunque quel determinato tessuto è fatto di materiali presi da scarti dell’oceano, di organico, di biologico. Ci arrivano tante di quelle informazioni che, a me che sono un creativo atipico, fa venire voglia di andare in una direzione opposta. La scintilla nasce da quello, dal rispondere in maniera autonoma a un’ovvietà che chi crea abbigliamento ben conosce, ovvero che si crea sporcizia, inquinamento. Si tratta di un problema di tutto il consumismo. Però c’è differenza tra le modalità di lavoro relativamente a questa tematica. Va dimostrato sul campo. Quanti prodotti sono campionati con tessuti organici? Miliardi. Vero, il tessuto può essere organico, ma la produzione crea comunque inquinamento. Noi lavoriamo su quello. È arrivato il momento di preoccuparsi di ciò che vediamo davanti agli occhi ogni giorno. Eravamo stufi di quella che è una manovra comunicativa del sostenibile senza farlo per davvero. Questo è “Utopia Project”.

Da creativo atipico, mi piace complicarmi la vita. Questo è il secondo tempo della mia carriera. So di fare un lavoro che parla di consumismo e apparenza, quindi volevo trovare un metodo che mi rendesse orgoglioso di creare qualcosa che mi facesse stare bene, qualcosa che posso pensare di fare fino a quando avrò 90 anni. 

Foto di
Francesco Spallacci