Vasco a San Siro: una delle ultime religioni del nostro tempo

Oggi, in cui “fare uno stadio” sembra essere diventato uno status, il Blasco rimane inarrivabile perché i suoi live non sono solo concerti, ma riti

L’enciclopedia Treccani illustra così la parola “rito”: definisce l’azione o il comportamento formalizzato e simbolico, fissato dalla tradizione, occasionale o periodico, che in genere costituisce parte di un culto o di una celebrazione religiosa. È la descrizione più autentica di un concerto di Vasco Rossi. Fan in pellegrinaggio accampati da giorni davanti allo stadio con tatuaggi del loro mito incisi sulla pelle a formare una nuova tribù urbana, canti collettivi come preghiere per esorcizzare il presente, fumogeni da ultras sono i nuovi incensi, gesti liberatori come il lancio dei reggiseni su “Rewind”, trascendenza, protesta, amore, passaggio generazionale di genitore in figlio: Vasco è lo sciamano di una delle ultime religioni del nostro tempo. Con i “magnifici sette” sold out a San Siro di quest’anno, sono diventate trentasei le volte che il Blasco ha calcato lo stadio milanese dal 1990 a oggi, radunando oltre due milioni e mezzo di spettatori. Sette su sette, 400mila fan chiamati a raccolta, pur non pubblicando un nuovo album da tre anni e avendo 2,3 milioni di ascoltatori su Spotify, meno della metà di Anna Pepe, per citarne una tra le tante. E ha già annunciato le date per il 2025. Alcuni degli indicatori con cui oggi si tenta di leggere il percorso o il successo di un artista, nel caso del Komandante, non valgono alcunché, perché la carriera e soprattutto il repertorio formano il vero culto che si tramanda nei suoi confronti. Sembra banale dirlo, ma a maggior ragione in un’epoca di musica liquida e ascolto distratto, le canzoni sono le vere tavole di pietra, i comandamenti che rimangono nel tempo. Quando in scaletta, dal vivo, puoi permetterti, come quest’anno, di suonare e cantare brani immortali come “Sally”, “Albachiara”, “Vita spericolata”, “Canzone”, “Gli angeli”, “C’è chi dice no”, cos’altro serve? 

Oggigiorno in cui “fare uno stadio” sembra essere diventato uno status da raggiungere a tutti i costi, il Blasco, che i sold out li fa sempre e per davvero, rimane inarrivabile perché è andato oltre i dati, i parametri e le classifiche, mettendo una firma sulla storia. Alla fine sta tutto lì, come ha spiegato più volte lui: «le canzoni che ho scritto non mi appartengono più, sono di tutti». Pezzi che, da più di quarant’anni, attraverso una struttura lessicale semplice e diretta, coincidono con frammenti di vita personali, con ferite, gioie, emozioni, con ricordi di una parte gigantesca del Paese. E per risentire tutto insieme, con una botta di adrenalina, il modo migliore, come da sempre ci ricorda ogni meccanismo di devozione, è il rituale collettivo. È un “non avrai altro Vasco al di fuori di me”, fateci caso: i fan più accesi di Vasco ascoltano quasi tutti solo e sempre Vasco

I concerti sono le espressioni più alte della Vasco-mania. Appuntamenti che il rocker di Zocca ha reso mitici anche per la presenza scenica e interpretativa, tasselli tutt’altro che secondari. Salmo, un gigante nel live, è andato a vedere Vasco a San Siro come tanti altri discepoli-artisti a caccia di un selfie o di una foto. Ma al contrario di molti, ha scritto un post interessante e sincero: «Da ragazzino non sopportavo la musica italiana. Ero troppo giovane per capire che Vasco Rossi vive su un altro pianeta. Lo ammetto, non capivo un cazzo. Ho visto il suo live per la prima volta, ha cantato 2 ore e 30 interpretando ogni singola parola. Non ho mai visto nessuno tenere il palco in quel modo. Incredibile». Sì, perché Vasco dal vivo è davvero elettrizzante. In scaletta, a questo giro, ci sono medley da sette pezzi, oltre venti canzoni suonate, suonatissime da una band sempre rodata che vanta nomi come Stef Burns alla chitarra, tutti brani cantati con una forza gigante, da epica omerica. Scordatevi il Vasco degli eccessi che dà risposte sconclusionate a Mike Bongiorno a metà anni Ottanta, quello di oggi è sempre più allenato e fisicamente pronto a tutto. Non a caso fa sembrare la presa della Scala del Calcio, che per ogni artista è una scalata, una passeggiata. Il tutto è calato in scenografie imponenti tra fuochi, giochi di luce e ledwall giganteschi. Lo spettacolo, però, non sovrasta mai la musica perché, come sottolineato, sono le canzoni il vero cuore del cerimoniale. 

Vasco, per la posizione che ha raggiunto, può quasi tutto. Può esporsi, può fustigare i politici senza perdere un briciolo di consenso. E lo fa senza ricorrere a noiosi e polverosi sermoni, ma attraverso le sue canzoni come quando dedica “Basta poco”, con un “basta poco per essere intolleranti”, a Matteo Salvini. Può anche, a oltre settant’anni, fare ammiccanti movimenti pelvici simulando un atto sessuale, o portare le mani, formando un triangolo, verso la bocca. I farisei li chiamerebbero “atti trash”, per i fedeli sono folclore. È nel canto comune che si sente la potenza di quello che ha seminato: in quelle parole, ripetute all’unisono da decine di migliaia di persone, c’è qualche cosa che non si riesce a descrivere. È inafferrabile. Metafisico, ma anche popolare. Alla faccia del materialismo e dell’ego in Terra, un giorno, forse, quando Vasco non ci sarà più, vedremo comunque i pellegrini radunarsi negli stadi come San Siro per cantare ancora le sue canzoni sparate dagli altoparlanti, ricordandolo. A quel punto si sarà andati anche oltre la carne e gli stadi assurgeranno a nuovi templi.