Era il 1992 quando Gianni Versace presentava una delle sue collezioni più iconiche di sempre, probabilmente considerata anche tra le più controverse. Il titolo della sfilata, “Miss S&M“, lasciava già intendere qualcosa, ma quando le top model cominciarono a solcare la passerella si gridò allo scandalo. I défilé erano un modo per lo stilista di trasformare in realtà le sue fantasie e così, in un decennio caratterizzato da una forte apertura nei confronti della sessualità, l’ispirazione principale ricadde sulle pratiche sadomaso. Fu un tripudio di nero e oro con abiti decorati da cinghie e fibbie che si estendevano sul petto e sul collo delle modelle in stile bondage, carichi di preziosi dettagli provenienti dalla Magna Grecia. In poche parole nacque la “donna Versace“, estremamente provocante, potente e sicura di sé davanti a ogni sfida, tanto da dominare la presenza dell’uomo. Le opinioni furono contrastanti: c’è chi la definì un capolavoro di avanguardia, mentre altri la giudicarono un oltraggio al pudore. Fatto sta che tutti se la ricordano ancora oggi, forse anche per un altro fatto a essa legato.
Nello stesso anno, infatti, in occasione del centesimo anniversario di Vogue, all’apice della sua carriera, Gianni si presentò sul red carpet introducendo al pubblico la sorella Donatella, finora rimasta nell’ombra, la quale indossava un abito realizzato appositamente per lei dal fratello, ispirato proprio alla collezione “Miss S&M” in modo da dare con effetto immediato un’immagine di potenza e libertà che tuttora contraddistingue la stilista.
Nell’ottica di celebrare l’enorme patrimonio lasciato da Gianni, Donatella Versace continuerà anche in tempi piuttosto recenti a proporre richiami e celebrazioni di quell’indimenticabile linea, come nella collezione autunno/inverno 2019, quando Candice Swanepoel indossava una versione aggiornata del celebre vestito sfoggiato ventisette anni prima dalla designer; o come nella collezione uomo dello stesso anno, dove felpe e t-shirt riportavano stampe che mimavano attrezzature bondage in una color palette di rosso, bianco e nero tipica del fetish.
Sebbene quello della maison italiana sia stato con ogni probabilità il caso più eclatante di moda BDSM, il fashion system ha da sempre provato una particolare attrazione verso il sesso e la perversione, visti dai creativi come un campo fertile da cui attingere nella costante ricerca dell’ispirazione.
Arrivati a questo punto, per chi non lo sapesse, è giusto spiegare che cosa si celi dietro quelle quattro lettere. Con BDSM si intende “Bondage, Dominazione, Sadismo, Masochismo“, ovvero una pratica sessuale/erotica basata su giochi e fantasie di disequilibrio di potere tra coppie D/s, le quali richiedono uno specifico dresscode fatto di frustini, collari, guinzagli, catene, imbracature e materiali come pelle, latex, PVC e gomma. Nonostante si tratti di un vero e proprio universo con mille diramazioni che meriterebbero un discorso più ampio, non è questo il luogo e il momento adatto, poiché l’argomento su cui ci vogliamo soffermare è il rapporto tra questa cultura e la moda. In realtà, per argomentare meglio il nostro approfondimento, dobbiamo ancora aggiungere una dose di nozionismo: una delle tante sfaccettature del BDSM è il fetish, ossia un approccio alla sessualità che si rifà ad alcuni elementi tipici del feticismo, attribuendo una componente erotica a determinati tipi d’abbigliamento, il che implica che il lato estetico sia fondamentale, tanto quanto lo è nel fashion e dunque non c’è da stupirsi se queste due realtà siano più volte entrate in contatto.
Una delle prime a incorporare elementi BDSM nel contesto fashion è stata la regina della rivoluzione Vivienne Westwood. Già negli anni Settanta, nel suo leggendario store Sex aperto assieme al compagno Malcolm McLaren era infatti possibile trovare accanto a t-shirt talvolta caratterizzate da stampe che raffiguravano i personaggi Disney in chiave porno, sex toys e accessori come pettorine e collari costituiti da pelle e borchie che da lì a poco diventarono parte integrante dei look punk nel nome di un affronto alla morale borghese.
Da lì in poi, tra Alexander McQueen, COMME des GARÇONS, HYSTERIC GLAMOUR, Rick Owens, Richard Quinn, Vetements, Moschino e Saint Laurent, l’estetica BDSM ha continuato a essere presente negli anni all’interno delle più prestigiose fashion week adattandosi al contesto, grazie anche a Robert Mapplethorpe, Helmut Newton e Steven Meisel, celebri fotografi che nei loro scatti per le maison hanno trasformato il lato kink in una forma d’arte. Negli anni Novanta il bondage sadomaso interessa l’alta moda con Dolce&Gabbana, Versace, Jean Paul Gaultier e Mugler diventando sinonimo di glamour; dopodiché, nei primi anni Duemila viene interpretato da Helmut Lang in una nuova veste sartoriale con influenze militari che diventerà la sua firma; e ancora, con l’intervento di Givenchy lo ritroviamo persino nelle sofisticate collezioni di haute couture; per non parlare poi dell’influenza nello streetwear, recentemente esplicitata da Supreme con una t-shirt raffigurante un orsacchiotto con strap-on e frustino che dice “I’m not sorry”.
In tutto questo però, al di là del largo utilizzo di harness e latex, ci sono alcuni brand che si sono contraddistinti più di altri in tale approccio, tra cui Gucci, che già nell’era di Tom Ford proponeva una donna dominante super sexy, ma soprattutto con Alessandro Michele è tornato alla luce sotto una narrazione più onirica: prima nel 2019 in una sfilata dedicata alla figura dell’ermafrodito con maschere, collari e aculei che ricordavano l’atmosfera teatrale di “Eyes Wide Shut”; e poi nella collezione “Aria“, dove la tradizione equestre del marchio è stata trasfigurata in una cosmogonia fetish fatta di cinghie, morsetti e colpi di frusta. Non è da meno Marine Serre, che sin dal suo debutto, con il suo “FUTUREWEAR”, ha esplorato il ruolo dello zentai nelle subculture fetish e BDSM realizzando bodysuit integrali e passamontagna in spandex ricoperti dal motivo Crescent Moon come se fossero un’eccitante seconda pelle.
Ma se tutti questi esempi non vi dovessero ancora bastare, ci pensa Alexandra Dorè a incrementare la vostra fantasia, con la sua pagina Instagram che immagina delle irriverenti campagne a sfondo BDSM realizzate dalle più impensabili maison del lusso come Hermès e Bottega Veneta.
Particolarmente interessante è poi il concetto portato avanti da ZANA BAYNE, un brand apprezzato da personaggi del calibro di Lady Gaga, Marc Jacobs, Rei Kawakubo, Beyoncé e Lil Uzi Vert specializzato nella produzione di articoli in pelle e metallo come pettorine, collari, maschere e bustier ispirati all’S&M e al punk, che però si definisce un marchio post-fetish, poiché, secondo il direttore creativo e responsabile dell’immagine Todd Pendu, decontestualizza l’origine BDSM per proiettarla nella moda di tutti i giorni.
Questo pensiero risulta particolarmente degno d’attenzione, dal momento in cui viene condiviso e amplificato anche da 1017 ALYX 9SM e Louis Vuitton attraverso l’utilizzo della pettorina, un oggetto introdotto nell’immaginario BDSM negli anni Sessanta dalla sottocultura leather della comunità gay che oggi vuole affermarsi come un accessorio di moda da indossare con una certa eleganza per rendere originale un look formale con un semplice accorgimento. Non a caso i modelli disegnati da Virgil Abloh sono apparsi persino agli eventi più patinati indosso a Chadwick Boseman, Timothée Chalamet e Michael B. Jordan.
Quindi anche chi non conosceva il BDSM in ambito sessuale ha cominciato a interfacciarsi con esso e con il suo stile (magari inconsciamente), non solo grazie all’impatto di “Cinquanta Sfumature di Grigio” e al movimento LGBTQ+, ma soprattutto per merito del fashion system, il quale ci ha innegabilmente aperto la mente verso un’affascinante realtà che per troppo tempo è stata tenuta nascosta.