Willie Peyote: potere alla parola

È un bel periodo per Willie Peyote: nella sua voce e sul suo volto non c’è traccia del nervosismo tipico dell’artista che si ritrova ad affrontare la corazzata del Festival di Sanremo. È la seconda volta nella sua carriera che si cimenta con la kermesse: era già stato qui nel 2021 con Mai dire mai (la locura), in un Ariston vuoto e blindato per via del Covid, e ha scelto di tornare perché «mi è venuta un po’ la FOMO» dice sorridendo. «La volta scorsa non ho vissuto l’esperienza completa del Festival. Nel 2021 Sanremo mi era capitato per caso: erano anni strani, confusi, faticosi, arrivavo da un tour importante e interrotto a metà causa pandemia. Era tutto molto pesante. Oggi sono molto più centrato e consapevole». In mezzo ci sono stati anche due album, di cui l’ultimo,  Sulla riva del fiume, pubblicato in due tempi: la prima metà è uscita ad aprile 2024, la seconda esce oggi, con quattro brani inediti aggiunti alla tracklist. «Un percorso molto naturale, questo disco praticamente si è costruito da solo» racconta. «E stiamo già lavorando a un nuovo album: sono finalmente tornato in una fase della vita in cui ho voglia di fare musica, mi diverte sia scriverla che viverla. Anche per questo vedo tutto in maniera molto positiva».

Attenzione, però: nonostante tutto lo zen del caso, Willie resta sempre titolare della sua solita ironia caustica e pungente. Gli aspetti più superficiali e spettacolarizzati del Festival restano quelli che gli piacciono di meno, in primis i gossip e le polemiche gonfiate ad arte. Ci leviamo subito il dente, quindi, sparando a raffica una serie di domande sulle questioni più eclatanti e chiacchierate di questa edizione. Le amanti segrete e le storiacce di corna? «Ah, io non so niente e non ho niente da dire» ride. «E comunque è normale che si parli parecchio di queste cose: quest’anno ci sono tante superstar, che smuovono gli appetiti delle cronache rosa. Per adesso, però, per fortuna con me si può parlare solo di musica». Bella stronza nella serata delle cover? «A mio gusto non andava scelta quella canzone, perché si sapeva che c’era il rischio che venisse strumentalizzata, ma ormai sarebbe inutile cambiarne il testo per adattarlo ai tempi, come suggeriva qualcuno. Mi rendo conto che alcuni passaggi sono invecchiati maluccio (secondo me erano comunque sbagliati anche all’epoca), ma non ha senso intervenire». La vicenda di Emis Killa? «Ha fatto bene a ritirarsi, ma per se stesso: è un ragazzo intelligente e ha fatto la scelta giusta, anche per tutelare la sua salute mentale. Se non lo avesse fatto, sarebbe stato schiacciato dalle polemiche. In maniera superficiale, oltretutto, perché è solo indagato e al momento non ha commesso alcun reato, tanto per ribadire come funziona la giustizia vera». 

Ma sui testi dei rapper e una presunta censura nei loro confronti – tema emerso dopo che Tony Effe era stato escluso dal concerto di capodanno di Roma e qualcuno aveva chiesto anche la sua rimozione dal cast di Sanremo – il discorso si fa più complesso e la sua risposta più articolata. «Se penso alla censura mi viene in mente il rapper iraniano Toomaj Salehi, arrestato e condannato a morte per le sue strofe» riflette. «L’attualità del nostro paese esula da questo discorso, perché di fatto nessuno è stato censurato e le canzoni rap continuano a essere suonate e ascoltate». Vero, ma è anche vero che illustri esponenti del governo (tra cui il sottosegretario alla cultura con delega alla musica Gianmarco Mazzi) hanno più volte detto che ritengono pericolose le barre dei rapper e che i loro testi andrebbero «rivisti e controllati». «Se e quando il governo interverrà sui testi, mi troverai in prima linea a ribellarmi. Al momento però ancora non è successo» sottolinea. «Certo, ci sono situazioni in cui comunque si è un po’ limitati, ad esempio in radio le canzoni che contengono certe parolacce devono essere cambiate per poter essere trasmesse. Non parlerei però di censura ma di conservatorismo, che si sta sicuramente diffondendo in questo paese. E questo mi preoccupa».

«Non mi sento un baluardo: sono solo uno che non riesce a fare a meno di dire la sua, ma senza la pretesa di rappresentare per forza qualcosa».
Willie Peyote

Si è parlato molto del fatto che il brano che Willie porta in gara, Grazie ma no, grazie, è l’unico tra quelli sanremesi a includere tematiche politiche e sociali, citando addirittura le manganellate in piazza ai manifestanti: in un panorama musicale in cui l’individualismo regna è un esemplare in via di estinzione, praticamente. «Spero solo che non faccia il giro e che la gente non la percepisca tipo “Quel rompicoglioni di Willie Peyote ha sempre qualcosa da dire”!» ironizza. «D’altra parte è stato più forte di me: l’idea di andare su un palco che ha un pubblico così sterminato e non dire nulla mi sembrava un’occasione persa. Allo stesso tempo, capisco la scelta di non esporsi per non andare a impelagarsi in gineprai vari. Insomma, non mi sento un baluardo: sono solo uno che non riesce a fare a meno di dire la sua, ma senza la pretesa di rappresentare per forza qualcosa». Grazie ma no, grazie è un brano nato qualche mese fa, durante un viaggio in Ecuador: «Ero andato a trovare mia sorella che vive lì con la famiglia, in una cittadina di nome Ballenita, nella provincia di Santa Elena: un posto molto vintage, bloccato in un’altra epoca, ma bellissimo, sul mare, con le balene che ti passano davanti» racconta. «Essere così lontano da casa e passare il tempo con le mie nipotine (e conoscere il mio terzo nipote, che era nato da pochi giorni) mi ha aiutato: è una situazione che ti porta a mettere in ordine le tue priorità, avevo meno seghe mentali in testa e mi ha aiutato a scrivere con più leggerezza, e a pensare all’Italia in modo diverso».

«Se fossi un adolescente del 2025 probabilmente non farei rap, perché ai miei tempi era un genere di rottura rispetto al mainstream, e invece oggi è il mainstream».
Willie Peyote

Tra i problemi dell’Italia di oggi, secondo Willie, c’è anche il fatto che i giovani sono molto più conservatori e menefreghisti di quanto non lo fossero lui e i suoi coetanei. E no, non si ritiene lui stesso parte dei giovani visto che quest’anno compirà 40 anni, cosa che comunque gli fa un certo effetto. «Mentirei se dicessi che sono solo felice di essere arrivato a questo traguardo» confessa, «però ho imparato ad abbracciare il tempo che passa e mi sto preparando ad affrontare la seconda parte della mia carriera, ma non la vivo particolarmente male. La mia vera paura è invecchiare di testa, non capire più il mondo che mi circonda, perché aver paura delle cose che cambiano significa essere vecchi dentro». Per il momento si limita a guardare con una certa perplessità fenomeni come quelli dei trend su TikTok («Non riesco a capire che gusto si prova a rifare 100 video identici a quelli fatti da altri»). Anche il suo rapporto con il rap è cambiato, nonostante si consideri ancora un rapper a tutti gli effetti. «Se fossi un adolescente del 2025 probabilmente non farei rap, perché ai miei tempi era un genere di rottura rispetto al mainstream, e invece oggi è il mainstream» dice. «Nient’altro ricopre più il ruolo dell’hip hop di allora, forse perché viviamo in un mondo già appesantito: la musica è diventata più svago che protesta e pensiero, e ci sta». 

Ad ogni modo Willie Peyote è comunque un rapper atipico, uno che piuttosto che parlare a un generico «voi» preferisce rivolgersi a un molto più specifico «noi». «Sarebbe pretenzioso guardare ai problemi come se non ne facessi parte» osserva. «Negli ultimi anni sono stato sensibilizzato sul privilegio che rappresento, per via delle categorie a cui appartengo di default. Credo che tutto questo mi abbia migliorato come autore e sicuramente come essere umano». Nessuno, teorizza, è davvero immune alla cultura dominante in cui siamo immersi: «Lo spiego in Cowboy quando parlo di mio nonno, comunista che ha vissuto la guerra, ma poi nei western teneva comunque per i cowboy anziché per i nativi americani». All’inizio anche lui era dubbioso rispetto al linguaggio inclusivo, all’uso degli asterischi e all’evitare parole particolarmente controverse. «Oggi, invece, sono convinto che sia stato un percorso utile per tutti e che non è vero che non si possa più dire niente, anzi. Accettare di far parte di una categoria privilegiata e ammetterlo è l’inizio del processo di vero cambiamento». Allo stesso tempo, però, non crede di doversi giustificare più del dovuto per parole che ha incluso nei suoi testi in passato: «La caccia alle streghe (specie se retroattiva) mi sembra un po’ troppo» afferma. «Non possiamo cancellare gli errori che abbiamo fatto. È giusto ricordarli per evitare di commetterli di nuovo in futuro». 

«Nient’altro ricopre più il ruolo dell’hip hop di allora, forse perché viviamo in un mondo già appesantito: la musica è diventata più svago che protesta e pensiero, e ci sta». 
Willie Peyote

E a proposito di futuro, il suo è più impegnato che mai: un tour che porterà Sulla riva del fiume («Un album registrato in presa diretta e nato per essere suonato dal vivo») sui palchi di tutta Italia, il nuovo disco già in lavorazione. E perfino un documentario su di lui, le cui riprese sono già in corso: Willie Peyote – Elegia sabauda è prodotto da Wanted Cinema e scritto e diretto da Enrico Bisi, (regista già molto noto tra il pubblico hip hop per aver girato un altro amatissimo documentario, Numero Zero). Sono già passati dieci anni da Educazione Sabauda, e si apre un nuovo ciclo per Willie Peyote. Sanremo è solo il primo step.