La società VF Corp ha dichiarato che nell’anno fiscale conclusosi a marzo i ricavi di Supreme sono stati pari a 523,1 milioni di dollari. Il dato, che potrebbe ingenuamente apparire positivo se consideriamo i “soli” 200 milioni guadagnati nel 2017, risulta in realtà al di sotto delle aspettative. Secondo le stime della holding, il marchio di James Jebbia avrebbe infatti dovuto chiudere il 2022 con un fatturato di 600 milioni, proiezione che oltre a non essersi realizzata ha visto un calo degli introiti di 38,4 milioni di dollari rispetto all’anno precedente.
Questi tediosi dati finanziari riflettono una situazione che è evidente anche ai meno esperti in economia. Banalmente, basta visitare il sito dell’etichetta per accorgersi come numerosi articoli siano ancora disponibili a distanza di giorni dal drop e anche le dinamiche negli store non sono certo più quelle delle file chilometriche che abbiamo visto in passato.
Ma come siamo arrivati a tutto ciò?
Ebbene, in questo momento Supreme si ritrova a dover fronteggiare la cosiddetta era post streetwear che era stata profeticamente annunciata da Virgil Abloh. In altre parole, il mondo della moda, che fino a non molto tempo fa guardava con grande interesse gli skate shop e la vivace scena culturale attorno a essi, preferisce ora spostare lo sguardo altrove. Così, anche l’entrata in gioco del direttore creativo Tremaine Emory, con il suo cambio di rotta verso una riduzione delle collaborazioni e una maggiore attenzione nei confronti di un’estetica più di nicchia, non è servita a raggiungere lo slancio sperato.
All’apparenza le soluzioni più immediate per risollevare il destino di Supreme potrebbero essere due: adeguare il modello di vendita rendendolo più simile a quello degli altri brand gestiti da VF Corp o stupire nuovamente il pubblico con delle proposte più legate allo spirito del tempo. In entrambe le ipotesi, però, il rischio è quello di scontentare i fan più affezionati del brand che ha plasmato l’hype culture.