Da Milano Sud a Sanremo – Intervista ai Coma Cose

Abbiamo incontrato i Coma Cose nello store Airness a Milano un pomeriggio di qualche settimana fa, perché quella sera si sarebbero esibiti durante l’evento Noche Espolón.

Quella dei Coma Cose non è la classica storia di due ragazzi baciati dalla fortuna che un giorno si sono svegliati e si sono trovati con migliaia di visualizzazioni su YouTube. È molto più realistica, naturale. A volte disillusa, ma anche estremamente entusiastica. Semplicemente, è molto più vicina alla vita di chiunque, più vera. Magari è comunque una storia da film, quello sì, un po’ come tutte quelle in cui, a un certo punto, c’è un cambio di rotta più o meno improvviso che ti permette di vedere la rapida crescita del personaggio in cui sei riuscito a immedesimarti, mentre tu resti sul divano a farti domande su come le cose possano davvero cambiare così rapidamente. Ma resta comunque la storia di quelli che potrebbero essere due ragazzi della porta accanto, che incontri puntualmente andando a buttare la spazzatura o mentre percorri la stessa strada per andare al lavoro.

«Io all’inizio dei Coma Cose avevo attaccato il microfono al chiodo e questo progetto doveva essere una sorta di canto del cigno, fatto anche per divertirsi, poi però le cose vanno come non pensi», dice Fausto a un certo punto mentre parliamo. Quella che può sembrare una nota pensierosa nelle sue parole è in realtà una profonda consapevolezza che deriva forse dall’aver vissuto – e programmato – due vite diverse. Nasci in un determinato contesto e mentalmente ti fai un’idea più o meno chiara – a volte anche inconscia – del percorso che seguirà la tua vita, e ti impegni per assicurarti di ottenere le migliori condizioni che quel contesto ti può dare; poi da un momento all’altro qualcosa arriva e ti trascina in un altro percorso, una strada che hai già provato e abbandonato, verso obiettivi che hai già studiato e poi messo da parte. E allora succede qualcosa. Proprio quando ti eri pensato un percorso nuovo qualcuno ti dirotta e tu lo segui. 

La storia di Fausto e California è andata un po’ così. Fausto aveva già fatto il suo tentativo nella musica e California è arrivata per dargli nuova vita, da allora – e fino ad ora – continuano a darsi a vicenda i giusti ingredienti per tirar fuori una musica sempre fedele alla loro vita, a sua volta fedele alla loro persona. «Io da parte mia avevo pensato fosse finita la mia esperienza con la musica e quindi è per quello che non mi sentivo pronto», afferma Fausto, «mi sentivo fuori contesto e anche lontano da certe dinamiche. Avevo fatto amicizia all’interno del settore, ma erano amicizie lontane, di circostanza. Quindi non mi sentivo assolutamente competitivo, almeno per quanto riguarda l’essere professionali. In quel momento non potevo dedicare quanto volevo alla musica». 

«Per me era tutto nuovo, anche perché non è un lavoro canonico», interviene California. «La cosa bella della musica è proprio questa, che non ha troppi schemi, o comunque cerchiamo di non averne. Perché poi è anche bello mantenere un attaccamento più passionale, senza farlo diventare – tra virgolette – un lavoro. Poi lo è, però ci ricordiamo sempre che siamo fortunatissimi a fare questo e cerchiamo di mantenere sempre una buona dose di entusiasmo».

Quando la vita cambia in questo modo, non di colpo ma con una certa calma, si ha la fortuna di poter pensare, capire; dare il tempo alla nostra persona di adattarsi a un nuovo contesto, evitando di fare scelte affrettate, cosa che adesso, con le nuove giovanissime leve, succede sempre meno. Faccio notare loro una vecchia citazione di Fausto, che esprime un pensiero assolutamente lecito e comprensibile: “C’è la paura di dover condividere tante cose, di perdere il timone, perché non siamo solo noi a guidare la macchina e potremmo ritrovarci in un viaggio che magari non avevamo scelto”, diceva, ma appare subito chiaro che, nonostante i diversi anni passati, ciò non sia mai successo e California me lo conferma: «Il team con cui lavoriamo è lo stesso da quando abbiamo iniziato questo progetto e siamo fortunati perché abbiamo molta libertà creativa. Anche per scelta, perché comunque bisogna scegliere di avere libertà creativa in questo mestiere».

«Anche perché questo progetto è arrivato in una fase già adulta della nostra vita» aggiunge Fausto, «quindi fondamentalmente sappiamo cosa non ci piace, cosa non ci fa stare bene, e lo evitiamo fortemente. Un ragazzo che ha successo da giovanissimo costruisce il suo bagaglio culturale da famoso, e questo è molto diverso dal costruirselo invece da non famosi. La vivi con una voglia di rivalsa diversa, con delle esperienze, delle amicizie, delle possibilità totalmente diverse».

Forse il segreto, almeno per loro, sta nel provare a scindere, per quanto possibile, la parte creativa da quella lavorativa. «L’aspetto tecnico subentra quando devi strutturarti, e allora diventa un mestiere. La parte creativa è un’altra cosa. La musica è sempre un atto di necessità, le canzoni arrivano perché c’è qualcosa da dire, o qualche cosa che vogliamo in qualche modo fotografare o imprimere. Questo fa sì che, se all’inizio della piramide c’è un exploit creativo, poi devi in qualche modo guidare professionalmente la creatività per farla diventare qualcosa di concreto. Ci sono tante scelte dettate da questioni lavorative quando si vuole traghettare la musica verso la fruizione di tutti, però si parte sempre da qualcosa che per noi è importante: un atto creativo vero e spontaneo. Ovviamente è successo che ci facessero proposte che non ci piacevano e abbiamo sempre detto di no, cortesemente (ride, ndr)».  

Se prima non si sentivano pronti a strutturare la loro passione come un effettivo lavoro, oggi è qualcosa di fortemente richiesto e necessario, ma in qualche modo sono abbastanza maturi da riuscire a rimanere legati alla realtà che vivono. Raccontandola ovviamente in modo diverso rispetto a prima. La loro carriera è iniziata a Milano Sud e lì continua, nonostante si siano sposati per questioni di necessità. Prediligono i campi, mi dice California ridendo. «Milano Sud resta il luogo in cui orbitiamo. In mezz’ora siamo sui Navigli, quindi siamo ancora qua, però più verso est», e ricordano piacevolmente quei tempi in cui la musica nasceva sui muretti la sera ai Navigli. «Ci sentiremmo fuori luogo a incarnare ancora oggi i due ragazzi che si bevono la birretta sul muretto del Naviglio. È stata una cosa bellissima, figlia di quegli anni che siamo felici di tenere sulla mensola dei ricordi, però non è più così».

«A quei tempi abbiamo scritto quello che vivevamo e credo che siamo riusciti a fare quello che volevamo, fortunatamente la nascita del progetto è coincisa con la nascita della nostra etichetta. C’era una grande libertà, come c’è tuttora. Siamo sempre gli stessi, anche nel team creativo. C’è una forte coerenza, anche per quanto riguarda il cambiamento. Stiamo crescendo tutti: noi, il nostro manager, i ragazzi con cui facciamo le produzioni. Quindi è un grande flusso che semplicemente evolve, ma con dei dettami che restano gli stessi».

Arriviamo a parlare di Sanremo e chiedo loro se è possibile immaginarsi di finire su un palco del genere, per ben due volte, sette anni prima?

«Quando abbiamo pubblicato i primi pezzi ci credevamo molto, volevamo cambiare vita e non avevamo niente da perdere. Io ho detto “mi butto, butto tutta me stessa in qualcosa di nuovo, in un nuovo obiettivo e ci credo”. Arrivare a Sanremo non me lo aspettavo, non ci abbiamo nemmeno pensato. È stato un percorso abbastanza naturale, anche di crescita. Poi tra l’inizio e Sanremo c’è stato anche un bel pezzo di vita nel mezzo, tanti concerti, svariati dischi, molti tour. Poi più vai avanti più vuoi provare qualcosa di nuovo e mettere in discussione la tua comfort zone. Noi in televisione c’eravamo stati forse una volta prima di andare a Sanremo», dice California.

«C’è da dire che anche Sanremo in questi anni è cambiato. Dall’inizio del progetto sono passati 7 anni. In 7 anni cambi vita, casa, affetti, amici» ribatte Fausto.

La musica ha dato loro l’opportunità di scoprirsi, valorizzarsi a vicenda ed esprimere la loro persona in toto. Non è un caso se hanno indossato Vivienne Westwood sul palco di Sanremo e se la loro musica ancora oggi è quella che vogliono loro e non quella richiesta dalle etichette. «Ad oggi Coma Cose è una scatola, in cui mettiamo un sacco di ingredienti, abbiamo sempre giocato con i generi, con i codici stilistici, è un luogo in cui noi buttiamo la creatività e questa rimane l’idea primaria del progetto. Non facciamo un genere prestabilito, siamo noi che di volta in volta giochiamo con quelli che sono gli ingredienti che possono piacerci in quel momento».

È per questo che, ci viene da dire alla fine, la loro partecipazione a Sanremo ha funzionato particolarmente bene. Con il primo appuntamento si sono presentati, con il secondo hanno portato sul palco le loro vite, facendo in soli due colpi quello che avevano già fatto con la loro intera carriera. 

«”Fiamme negli occhi” magari ha incuriosito, ha creato un’affettività perché è un brano – a tratti – spensierato e catchy, con delle sonorità che mancavano in un panorama mainstream. La canzone che abbiamo portato quest’anno è invece più canonica sotto certi aspetti, quindi la cosa bella è che è arrivata la narrativa della canzone», afferma Fausto. «Racconta anche lo svolgersi della nostra storia, il voler andare avanti e portare qualcosa di più intimo e meno spensierato», aggiunge California. «Esatto, e quella cosa lì ti fa capire che in qualche modo c’è una sinergia che riesce a rendere le cose che fai empatiche per le persone, e questa è la più grande soddisfazione che puoi avere».