Antidoti? Antidoti al funerale al clubbing, qualcuno ne ha? Perché sì: tra articoli internazionali – uno del Guardian, ad esempio, sulla progressiva morte della nightlife all’inglese fatta di house, techno e dintorni – ed articoli di casa nostra (c’è l’imbarazzo della scelta, dalle analisi “alte” del Manifesto in un bell’articolo di Andrea Lai sullo scadimento/trasformazione del ruolo odierno del dj ai vari articoli di cronaca locale che annunciano le infinite chiusure di discoteche storiche fino ai nostalgismi promozionali di Max Pezzali), ormai c’è una precisa cerimonia in atto, ed il caro estinto – o almeno, quello che sembra sul punto di esserlo già, di essere ormai tale – è il clubbing.
Solo che a questo punto molti hanno uno scatto d’orgoglio e dicono: no, non possiamo farlo accadere.
Non possiamo farlo accadere perché alle persone non ha smesso di piacere la musica di taglio più danceflooriano (per dire, al Coachella di quest’anno l’EDM ha avuto il triplo delle presenze rispetto agli act hip hop: un’inversione di tendenza, visto che l’EDM era data per agonizzante). Non possiamo farlo accadere perché non può accadere proprio ora che non siamo più negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, quando la musica elettronica ballabile era vista come il “male”, come non-musica, come una deriva fastidiosamente disimpegnata e superficiale, un pregiudizio già preso a martellate nella Manchester dei primi anni ’90 (quando l’indie rock con più cazzimma incontrava i dj, i remix, l’ecstasy) e poi progressivamente sconfitto in tutto il mondo, per fortuna. I più riottosi, convinti infine dagli LCD Soundsystem, dall’electroclash, dai Daft Punk più paraculi.
Non possiamo farlo accadere perché col boom della club culture negli anni ’90 prima e nei 2000 poi, con Berlino ed Ibiza che si conficcano nel nostro immaginario, ci sono ormai troppi artisti, troppe persone, troppi lavoratori e troppe economie coinvolte nell’ecosistema, troppi interessi monetari in gioco. Il clubbing, nell’arco di un decennio, è diventato una macchina da soldi.
Solo che su quest’ultimo punto è arrivata la svolta, la soluzione “furba”, la soluzione a tutti i problemi: i festival. Un tempo ballare lo potevi fare solo nei club, punto. Nelle discoteche. Ora, lo puoi fare ai festival. Eccome se lo puoi fare. Tutto più grande. Tutto più bello. Tutto più ricco. Tutto più luccicante. E i club, le discoteche? Pazienza. Un ricordo del secolo scorso, una tana per vecchi nostalgici, nostalgici di un mondo che non c’è più: quando per trovare il/la partner o anche solo semplicemente attaccare bottone, dovevi uscire fuori e contare sul potere disinibitorio del ballo, dell’alcool della sostanza. Oggi basta uno scroll, e un po’ di sesto senso.
E quindi, è davvero così importante fare ancora “advocacy” per il clubbing, nel 2025? Sperare che non muoia, rovesciarne il declino, impedire che diventi solo una faccenda da grandi festival, fuochi d’artificio e raggi laser di fronte a migliaia di persone?
Lo è. Lo è perché dobbiamo imparare – e ce lo stanno facendo dimenticare troppo spesso – quanto è bello costruire una comunità fisica (vedersi, incontrarsi, toccarsi), ideale (essere uniti dai gusti, da un certo tipo di attitudine, non da un’indagine di mercato o da una campagna di marketing), con una precisa continuità temporale nella nostra vita quotidiana (non l’one-off dei festival insomma, ma un appuntamento regolare, frequente, dove scegliamo noi di andare e ci mettiamo noi la dedizione, la perseveranza). Ultimamente stanno uscendo sempre più saggi e studi accademici si sforzano di spiegare, dal punto di vista proprio scientifico, gli effetti benefici del ballo – che libera endorfine, che ci fa “viaggiare” col pensiero, che ci fa sfogare fisicamente, che (ri)attiva energie – e di quanto la sua pratica sia legata all concetto ed alla forma ritualità, una componente da sempre presente nell’essere umano, dalla notte dei tempi. La neuroscienza della danza è un campo in crescita e sono in aumento anche i terapisti che aiutano i propri pazienti a superare i problemi della propria vita sulla pista da ballo. Non un invito a fare festa, ma una chiamata a considerare come lo facciamo – e perché, allineandosi con una più ampia rivisitazione culturale della pista da ballo come cerimonia piuttosto che una fuga. Non ritrovarsi a “perdersi” nel ballo sarebbe insomma una forma di sconfitta e di perdita antropologica, un impoverimento del nostro corredo genetico, emotivo, emozionale, un pilastro in mano su cui basare una forma sana e sostenibile di socialità.
@therapyravegirl As a therapist I tell my patients to go raving because dancing regulates your nervous system, produces feel good chemicals like serotonin, help our brains create new neural connections, connect us to other people and ourselves. #ravegirl #emdr #emdrtherapy #techno #edm #riddim #ravetok #raver #wook ♬ original sound – TherapyRaveGirl
Tutto bello. Tutto vero. Tutto importante. Bisogna però stare attenti ad una cosa: evitare che anche tutte queste cose bellissime – perché sono bellissime – siano citate e strumentalizzate solo ed esclusivamente per generare profitto. Evitare cioè la mercificazione delle nostre emozioni, delle nostre esigenze, delle nostre seti e dei nostri bisogni di libertà.
Un ultimo significato profondo del ballo è infatti anche l’irrazionalità, il lasciarsi andare, l’uscire dalle regole e dagli obblighi della quotidianità. Se muoiono i club e le discoteche c’è da restarne dispiaciuti, per carità; ma non significa per forza che sia in crisi il ballo. Ora più che mai potrebbe essere il momento per (ri)pensare a nuove forme di aggregazione, nuove forme di comunicazione, nuove forme di raduno collettivo, nuovi contesti dove dar loro vita (che non siano appunto club, discoteca o festival). Ora più che mai si potrebbe dire, forte e chiaro, che le discoteche e i club che servono solo a vendere alcolici scadenti e che hanno svenduto la propria identità artistica ad un intrattenimento dozzinale e al far cassetto ad ogni costo chiamando tronisti e trapper a fare comparsate senza sugo e col cronometro in mano, se chiudono è meglio.
Ma anche i club e le discoteche dove girano da anni sempre gli stessi ospiti stranieri techno e house ibizenco-berlinesi, i quali da anni suonano sempre la stessa musica, fingendo sempre allo stesso modo di essere alternativi ed underground, hanno stufato. Quello non è clubbing. Quello è mercificazione del clubbing. Quello è messa su catena di montaggio dei principi del clubbing, in una ottimizzazione produttiva che serve solo a spremere valore (e svuotare i portafogli dei clienti/appassionati).
Quindi sì: va bene cercare antidoti alla morte del clubbing. Va benissimo. Ma bisogna anche chiedersi: chi e cosa vogliamo davvero salvare? Chi e cosa merita davvero di essere salvato? Per cosa dobbiamo combattere davvero? I poteri benefici del ballo – che ci sono, sono profondi, sono antropologici – devono essere esercitati da noi su noi stessi, o sono solo il mezzo più paraculo e colorato per genere i profitti degli imprenditori più cinici e scafati?