“EVERY SECOND COUNTS! EVERY SECOND COUNTS!” Solo destrutturando e ascoltando la fonetica così potente di questa frase si potrebbe comprendere appieno il senso narrativo e sonoro che fin dalla prima stagione ha alimentato la storia di Carmy e della sua compagnia di “sventurati” alla ricerca della perfezione culinaria in The Bear.
Il tempo, sacrosanto in cucina così come nella musica, non scandisce solamente gli attimi del servizio che appare agli spettatori come l’inizio di un’overture operistica, ma definisce i molteplici avvenimenti in cui la vita di Carmy ha subito dei dirottamenti, dei cambi repentini di tempo, di località, di aspetti e affetti emotivi.
Ciò che accade in scena sembra perennemente confluire nell’esperienza condivisa che definisce costantemente l’aspetto emotivo della brigata. In The Bear sono lo scorrere degli attimi, i minuti e secondi tra una preparazione e il suo compimento, che aiutano a definire il procedere della vita di ognuno dei singoli protagonisti, e la musica, così come il montaggio sonoro, ne alimentano il fine in un costante turbinio di caos controllato in cui lo chef Carmen Berzatto ne è l’autentico direttore d’orchestra.
La cucina, la conformazione architettonica di Chicago, la famiglia disfunzionale dei Berzatto, non sono nient’altro che i molteplici ingredienti che rendono The Bear un agglomerato di esperienze che non si limitano unicamente al fine narrativo, ma comprendono il flusso continuo e vitale di una visione sensoriale e musicale in continua evoluzione. Se fin dalla prima stagione l’epopea familiare di Cristopher Storer, creatore e regista della serie, si era concentrata nell’analizzare il mondo della ristorazione da un punto di vista psicologico e qualitativo di coloro che intensamente vivono questo lavoro, e in particolar modo attraverso le ambizioni dello chef Carmy Berzatto, dalla seconda stagione il suo fine è diventato corale. Ogni membro della brigata ha la sua identità, il suo scopo nel mondo, e Chicago così come lo stato dell’Illinois sono l’involucro da cui poter innalzarsi; la geografia dell’ambizione.
Chicago è descritta accuratamente come un luogo in cui l’obiettivo non è necessariamente quello di ottenere status sociale o dei specifici consensi, quanto piuttosto di creare qualcosa di grande e originale, ambizioso senza pretese, impegnato nell’eccellenza e non alla ricerca spasmodica del prestigio o della fama. Non casualmente al termine della prima stagione, Storer utilizzava proprio la canzone Chicago di Sufjan Stevens per canalizzare l’esperienza fallimentare dell’Original Beef of Chicagoland e riscriverne la storia attraverso un nuovo locale denominato The Bear.
Ma la nascita del The Bear ha realmente risolto tutti i problemi? Il tempo sembra essere veramente la trappola che incatena i singoli protagonisti in uno stato emozionale sospeso in cui le perdite affettive, le difficoltà nell’intraprendere una nuova attività, si manifestano nel non scegliere di andare avanti.
Lo scorrere dei ricordi di Carmen nelle sue molteplici esperienze fuori da Chicago, alla ricerca della propria identità come chef, alimentati dalla composizione di Trent Reznor e Atticus Ross, Together, che Storer sceglie di utilizzare come unica via comunicativa del primo episodio, diventa l’incipit per collegare ogni singolo capitolo della terza stagione come l’ostinato di una singola composizione.
La sua struttura ad alveare fa sì che ogni fotogramma mostrato si risolva effettivamente nei successivi avvenimenti. Gli elementi coordinati che si muovono in perfetta armonia come la coreografia maniacale di una partita di cucina, si sgranano, si destrutturano, mostrando non solo la psiche del suo protagonista per antonomasia, ma si riflettono anche in Sydney, dubbiosa se continuare o meno la sua esperienza nel The Bear fino a diventarne socia; Marcus che cerca di ritrovare la propria magia “infantile” attraverso i suoi dolci, Richie sospeso tra la separazione e la morte di Mikey. Ogni personaggio risuona in una maniera specifica che non lascia niente al caso.
“Devi sentire tutti gli ingredienti suonare come una musica” è la frase che il leggendario chef francese Daniel Boulud rivela a Carmy durante il suo periodo di formazione a New York e questo incipit sembra essere il vero collante che tiene insieme il tutto. E la musica del corpo, delle città, delle differenti culture, il tempo inesorabile che sembra scorrere senza fine nel percorso delle proprie vite.
Come analizza dettagliatamente il sound editor Steve Giammaria: “il tema di questa stagione è effettivamente every second counts, quindi il compito era quello di tenere il passo ritmico dalle precedenti stagioni ma aggiungere un senso di urgenza a quasi tutte le scene. Questo è stato guidato principalmente dall’immagine, ma era anche importante incorporare i bit dell’orologio ed altri elementi ritmici nel nostro sound design per accelerare la tensione e il senso del ritmo, conglomerando la musica nel dialogo così da far percepire come se la cucina stesse effettivamente per esplodere”.
Il caos frenetico delle lore vite si espande anche al di fuori della cucina, e non è raro ritrovarsi ad ascoltare intervalli musicali o divagazioni sonore che non esulano dal loro stato emotivo sia uscendo dalla stessa Chicago, come nel caso specifico del tirocinio di Marcus a Copenaghen in cui tutto suona e vive in antitesi a ciò che avviene al The Bear, o come nel bellissimo episodio in cui si scopre la back-story di Tina ed il suo legame con Mikey.
Ogni episodio è la cornice di uno spazio privato di ogni singolo protagonista su cui viene costruito uno specifico leitmotiv. Se il focus nella prima stagione comprendeva principalmente artisti ricollocabili alla scena di Chicago, per simulare ciò che probabilmente gli storici clienti dell’Original Beef of Chicogaland avrebbero potuto ascoltare, dalla seconda stagione in poi lo spettro musicale ha subito una notevole evoluzione.
Uscendo dal paradigma cittadino, la musica diventa la funzione verbale di tutto quello che non è spiegabile nei rapporti ormai compromessi, come l’utilizzo di Baby, I Love You delle Ronettes durante il parto di Sugar che sembra quasi ricongiungerla con la madre, o il flusso sonoro di Reznor e Ross che aleggia sulla mente di Carmy e sul destino della propria carriera e vita personale tornando ripetutamente all’interno della terza stagione.
Come spiega Storer, anche nelle vesti di music supervisor della serie insieme al produttore esecutivo Josh Senior: “per noi la musica fa parte attivamente del mondo dello spettacolo, e quasi sarebbe in malafede abbandonare canzoni con cui non potevamo relazionarci o che non sembravano che vivessero in questo mondo, e solo perché erano popolari per un motivo diverso”. È la cosa più divertente che possiamo fare nello spettacolo, secondo me. È uno spasso”, dice Senior. “A volte togliamo tutte le canzoni e vediamo se ci mancano. Altre volte, usiamo le canzoni per sincronizzare le scene e tagliarle molto velocemente. È parte integrante del processo”.
Il modo in cui la musica entra in scena sembra simulare quasi il cambio frequenza delle onde radio, che attraverso dei feedback, provocati sia dal montaggio che dal mondo sonoro che alimenta la narrazione, squarcia letteralmente la quarta dimensione permettendoci di vedere effettivamente lo scorrere della storia.
“Scegliere la musica per i personaggi è stato davvero divertente. Sembrava fosse la musica che queste persone stavano realmente ascoltando. Quindi essere in grado di espandere un po’ il mondo significava essere in grado di focalizzarci di più su cose che erano rilevanti per noi o che sembravano davvero di impatto nel portare avanti la storia e avrebbero aiutato il pubblico a connettersi di più con i personaggi”.
Nonostante la maggior parte della critica non abbia apprezzato la scelta di Storer di abbandonare il focus culinario a discapito di un’espansione del mondo di The Bear, denunciandone unicamente i traumi emotivi senza aggiungere nulla di nuovo alla narrazione, crediamo che il successo della terza stagione si manifesti proprio nel tagliare il cordone ombelicale con quello che originariamente voleva rappresentare la serie, trovando anche nuove modalità di inter-connessione tra il pubblico e il formato seriale.
Fin dal principio la cucina è stata un’espediente per entrare nella mente di Carmy e conseguentemente tutti gli ingredienti aggiunti ne hanno amplificato il fine mostrando una storia antologica ricca di elementi. In uno degli ultimi episodi della stagione, Carmy si interroga proprio sul significato di “legacy”, sull’eredità che ogni chef può lasciare nella cucina che ha vissuto per lungo tempo, e non è solo il suo corpo a raccontarne l’esperienza, avendone tatuato ogni fotogramma (bellissimo il lavoro della makeup artist Ignacia Soto-Aguilar), ma ogni attimo cadenzato dal ticchettio perenne dell’orologio vitale. The Bear è una serie che continua ad evolversi, in cui ogni secondo conta.