Vi abbiamo già parlato del toccante Lil Peep: Everybody’s Evertything, il documentario su Lil Peep, l’artista tragicamente scomparso che era diventato – nel giro di pochi anni – un’icona pop a 360 gradi, oltre che un musicista amato in tutto il mondo.
La sua storia, così come il dramma della sua morte, sono raccontate dal regista Mezzy con lucida autenticità nel documentario, disponibile su Netflix dal 5 marzo. L’aspetto che più colpisce dell’opera è la totale assenza di filtri: è un racconto genuino, spontaneo – qualcuno potrebbe dire anche ingenuo – e diretto della vita di Peep, all’anagrafe Gustav Elijah Åhr. Ci siamo quindi chiesti cosa possa aver significato per Mezzy, il cui vero nome è Ramez Silyan, accompagnare per anni Lil Peep, riprendere tutti i momenti del suo quotidiano, e vederli convergere in un’opera che celebra la sua vita, ma che racconta anche la sua morte.
Grazie all’aiuto di BLSSND, artista italiano che ha collaborato in passato con lui e altri membri della GothBoiClique, siamo riusciti a raggiungere Mezzy per un’intervista.
Mezzy, Com’è nata l’idea di realizzare un documentario su Lil Peep? Era già in programma prima della sua morte? E se sì, in che modo la sua scomparsa ha influenzato la prospettiva sulla sua vita che volevate trasmettere ai fan grazie al documentario?
Prima della scomparsa di Gus io ero una delle tre persone che filmavano la sua vita quotidiana (gli altri erano Wiggy e Rayn), ci siamo confrontati un paio di volte sull’idea di creare un film sulla musica; volevamo creare qualcosa che documentasse la creazione di un album, qualcosa di simile al documentario sui Red Hot Chili Peppers con Rick Rubin. Peep amava i Red Hot, specialmente Anthony Kiedis. Non ti dico che era già in programma, ma avevamo pensato a qualcosa di simile. Quando è morto, l’idea di un vero e proprio documentario è arrivata dal suo management e da chi gestisce la sua eredità. Sapevamo di avere tantissimo materiale, ed era importante raccontare la sua storia.
Come regista ma anche come amico e persona vicina a lui, com’è stato lavorare al documentario? Come ti sei sentito dopo averlo finito e averlo guardato dall’inizio alla fine?
Lavorare a questo documentario è stata una delle cose più difficili che abbia mai fatto. Per fortuna l’editore Kyle Seaquist e il mio co-direttore Sebastian Jones si sono rivelati fenomenali, perchè in alcuni momenti è stato difficile mantenere la concentrazione e rimanere obiettivo, aspetto che sapevo essere fondamentale. La maggior parte delle interviste le ho condotte direttamente io, e sono state incredibilmente impegnative e toccanti, come delle sessioni di terapia. Come mi sono sentito una volta finito? Non so se vedrò mai un mio lavoro come “completo”, abbiamo dovuto semplicemente fermarci, il tempo a nostra disposizione era finito. Ad oggi, non riesco a guadarlo senza sentirmi triste e addolorato.
Purtroppo su Internet girano molte teorie del complotto riguardanti la tragica scomparsa di Peep, e alcune utilizzano il documentario come una sorta di contorta prova delle loro ipotesi. Come ti fa sentire questa cosa? Penso che in realtà il documentario riporti perfettamente la sensazione che sia stato un tragico incidente, che ha segnato profondamente chiunque fosse vicino a lui.
Tutti i nostri immensi sforzi in fase di lavorazione sono stati guidati dal desiderio di mantenere il documentario non solo il più obiettivo possibile, ma soprattutto interamente concentrato su Gus. Non è una prova per accusare qualcuno, o un racconto della sua morte; è una celebrazione della sua anima. Gli spettatori ovviamente interpretano tutto a modo loro, però mi scalda il cuore vedere che tanti si concentrato sugli aspetti migliori della sua persona, e nulla più. Cercate di empatizzare e capire cosa abbia rappresentato la sua morte, specialmente se mentre era in vita lo avete giudicato senza sapere, o se non lo avete rispettato come persona e come artista.
Il documentario è parte del grande lascito che è rimasto della vita e della musica di Peep, e ancora oggi ha un grande impatto sui fan in tutto il mondo. Quali feedback ti sono arrivati da loro? Hanno apprezzato il modo genuino in cui siete riusciti a rappresentarlo?
Siamo stati letteralmente sommersi dal loro amore. Sapere che per la sua famiglia, per i suoi amici e per i fan lo abbiamo onorato nel modo migliore significa molto per me. Tantissimi mi hanno detto che sono diventati fan di Peep proprio grazie al documentario.
Una delle cose che colpisce di più del documentario è la colonna sonora. Come avete scelto le canzoni da inserire? La discografia di Peep è immensa, ma siete riusciti a scegliere la canzone perfetta per ogni scena, e di sicuro non dev’essere stato facile.
Qui devo dire chapeau agli editor. Indubbiamente è stato difficile rendere giustizia all’intera discografia di Gus, assicurandosi allo stesso tempo di cogliere l’essenza di ogni momento con la canzone giusta. Alcune tracce erano state decise già all’inizio dei lavori, come “Nineteen” e “Witchblades”, ma la scena iniziale con “Hellboy” è stata un’aggiunta davvero dell’ultimo minuto, si è semplicemente incastrata alla perfezione con il contesto. La musica di Gus poi è perfettamente bilanciata dalla colonna sonora curata da Patrick Stump.
È davvero ammirevole la scelta di non omettere o censurare neanche gli aspetti più controversi dello stile di vita di un giovane artista, come per esempio i rapporti con alcol e droga. Avete fedelmente riportato la realtà dei fatti. Eravate preoccupati del modo in cui questo aspetto sarebbe stato accolto? O eravate concentrati soltanto nel raccontare la realtà?
L’obiettivo è sempre stato quello di essere veritieri, ma ovviamente queste tematiche sono state affrontate e trattate con particolare attenzione.
Ora che il documentario è disponibile in Italia grazie a Netflix, quale messaggio vorresti mandare a chi lo guarderà? Cosa pensi dovrebbero conoscere prima della visione, e cosa speri gli verrà trasmesso?
Potrà sembrare un clichè, ma il mio consiglio è di evitare di giudicare. Tenete i vostri giudizi per voi. Gus è stata la prima persona a farmi davvero capire quanto sia importante farlo. Fate vedere il documentario ai vostri genitori, ai vostri familiari, a chiunque abbia bisogno di imparare questa lezione.
Se potessi riassumere il documentario con tre parole, quali sarebbero?
A parte le tre scelte per il titolo? Mi spiace, ma per certi versi ti risponderò barando: “way beyond (the) blue” (Mezzy fa riferimento a una frase detta dal nonno di Lil Peep in chiusura del documentario, usata per descrivere il luogo in cui secondo lui si trova ora il nipote, ndr).
Ultimamente stiamo assistendo a una notevole crescita di documentari legati al mondo della musica – basti pensare a “Miss Americana”, “Hip Hop Evolution” o “The Defiant Ones”, solo per fare qualche esempio. Perché pensi che i fan siano ansiosi di scoprire qualcosa del loro artista preferito, qualcosa che non sia contenuto nella musica?
Ho l’impressione che i titoli che hai citato in buona parte siano stati realizzati su artisti che non hanno mai condiviso la propria “vera” persona sui social media, per lo meno non con la stessa sincerità di Gus; forse perché non hanno mai avuto l’occasione. In molti casi però gli artisti diventano dei veri e propri supereroi per i propri fan, e questi ultimi sentono il bisogno di saperne il più possibile.
Sei un regista particolarmente attivo, sia nel mondo dei video musicali che in quello della cinematografia; hai lavorato con Peep e altri musicisti, ma anche su progetti di natura diversa. Sei al lavoro su qualcosa al momento? Cos’ha in serbo per Mezzy il futuro?
Al momento sto lavorando sul primo film interamente firmato Mezzy, intitolato “SCUM“, mentre cerco di rimanere al sicuro chiuso in casa, durante la quarantena.