«Ho scritto Lucifero in un periodo X». Mi dice Kid Yugi quando gli chiedo come mai pensa che dentro di lui ci sia il maligno, e la scelta delle parole mi incuriosisce. È come se non volesse visivamente visualizzare quel frangente della propria vita, né tantomeno dargli una definizione. Un momento buio chiaramente, triste, debole. Uno di quei momenti no di cui parla Fabri Fibra. Probabilmente uno di quelli in cui il male è uscito dall’anima e si è fatto sentire forte.
Non è semplice togliere gli strati attorno alla persona di Kid Yugi. La musica è la sua confessione e sembra avere poche intenzioni di farsi scavare dentro nel bel mezzo di uno shooting fotografico, in mezzo a persone che lo guardano distratte e indaffarate. È sincero nelle sue risposte, ma allo stesso tempo è consapevole del peso delle sue parole e non ha alcuna voglia di farle volare al vento. Per confessarsi, appunto, c’è il microfono: l’unico strumento attraverso il quale si libera e si ripulisce da ciò che nella vita, crescendo, lo ha corrotto.
«Da piccolo ero più buono, poi cresci e ti imbastardisci», mi dice citando appena dopo una frase di “Penelope” di Achille Lauro: “Il mondo ci insegna ad essere insensibili con chi è sensibile”, e per quanto vero, Kid Yugi non vuole sottostare a queste imposizioni della società, seppur sappia che prima o poi ti entrano dentro.
La sua sembra essere un’ammissione di colpa e un invito a seguire l’esempio, a normalizzare il male che – per forza di cose – è dentro ognuno di noi. Se vivi il bene, l’amore, vivi anche il male. Un tema su cui qualsiasi filosofo in qualsiasi angolo del mondo si è espresso. Leopardi diceva che il male è condizione necessaria all’ordine naturale delle cose, Hegel che l’amore è incompleto se non conosce il travaglio del male. Chi più lo ha colpito e lo ha ispirato è però Michail Bulgakov, autore del libro “Il Maestro e Margherita” che pone le basi per il concept di questo nuovo disco, “I Nomi del Diavolo”.
«Il libro l’ho letto nel periodo della vita in cui non conoscevo l’amore. Credo sia uno di quei libri che ho capito vivendo e non leggendolo. L’avrò letto a diciassette anni, non mi ero mai innamorato».
Seppur il disco possa sembrare un continuo indagare il male e le sue forme, il tema principale che traina il progetto e chiude il cerchio una volta concluso l’ascolto è l’amore. «L’amore può vincere veramente su tutto», mi dice, per poi ripensarci e ritrattare: «O almeno, può farti superare tutto. Può farti raggirare gli ostacoli senza manco abbatterli, perché il tuo focus è su quello».
Arrivati a buon punto della nostra conversazione i pezzi del puzzle iniziano a mettersi insieme, ma non possiamo né vogliamo arrivare a conclusioni che sarebbero per forza di cose più semplici della complessità che caratterizza la persona di Francesco. È un discorso che capita più volte, quello della complessità, Kid Yugi ci tiene a far notare che le cose non sono mai bianco o nero. È anche per questo che vuole essere una voce: per descrivere la complessità ed esprimere tutte le difficoltà e le verità che stanno nel mezzo.
Una di queste riguarda sicuramente la droga. «È un tema di cui è giusto parlare, perché è uno dei mali della società», afferma per poi raccontarmi – pescando dalla sua memoria un altro dei suoi riferimenti – una scena del film “Le conseguenze dell’amore” di Sorrentino, in cui Toni Servillo recita “la società civile tende a semplificare, dividendo il mondo in tossicodipendenti e non tossicodipendenti, questa separazione netta non tiene conto di situazioni intermedie molto diffuse, come la mia”. «Perché lui nel film fa uso di eroina una volta alla settimana», mi dice Yugi.
«Se mia nonna pensa alla droga, pensa o a te che sei una ragazza che non ne fa un uso o al tossicodipendente che in mezzo alla strada non capisce manco come si chiama. È molto più complicato di così».
E mi parla poi dell’Ilva, azienda siderurgica di Taranto finita al centro di uno scandalo ambientale legato al grave inquinamento dell’aria, e che adesso prende il titolo di un pezzo del disco. «È una battaglia che continuerò a combattere dando voce, nel mio piccolo – che sta diventando però sempre più grande – a questa problematica, cercando di farla arrivare alle orecchie di più persone possibile. Di far capire che c’è una strage silenziosa dagli anni 60».
«Il mio obiettivo è essere una voce per la mia terra, leggenda magari quando morirò (ride, ndr). Voce tutt’ora mi ci sento, e cerco di esserlo sempre».
Kid Yugi ha una chiara visione di ciò che vuole essere, seppur con qualche insicurezza che sembra continuare a prendere a pugni. Mi racconta che nella vita non ha mai portato a termine niente, lo dice in “Ex Angelo”, programmato per arrendermi, «ho paura di poterlo fare anche con la musica, però non voglio che questa cosa finisca quindi farò di tutto per sconfiggere questa parte malata di me». La volontà, arrivati ad ascoltare l’ultimo brano, capiamo essere quella di voler lasciare qualcosa in questo mondo, un’impronta, per non essere dimenticato, dando magari speranza anche a coloro che verranno dopo. «Lo dico tra le righe: faccio questo perché ho paura di non lasciare niente quando morirò, che per quanto mi affanno resterà poco e niente».
Ma Yugi ci sta già riuscendo a mettere il segno, perché come dicevamo in questo articolo, una penna come la sua non esiste. Ce ne sono di diverse, ma non così. E la risposta di Yugi quando glielo faccio presente, quando gli chiedo come funziona il suo processo creativo e da dove tira fuori tutti quei riferimenti combinati a toste situazioni di strada, mi fa capire che a tutto c’è un senso: «secondo me nell’era di internet, più che individui siamo nodi in una rete di informazioni», esordisce. «Non possiamo controllare né come le informazioni ci arrivano, né come escono da noi. E questa mia scrittura, che può sembrare confusionaria, è in realtà voluta per rappresentare il mondo in cui viviamo», continua. «Siamo bombardati di immagini e input, e noi bombardiamo il mondo con i nostri output. Ciò che faccio è cercare di portare in musica la frenesia di questo mondo».
Una descrizione visivamente perfetta di una scrittura che dà voce a tutti quelli che, come lui, sono persone nel mezzo, figlie di un’era in cui cerchiamo assiduamente di essere liberi districandoci dalla complessità di ciò che abbiamo intorno.