Le discoteche sono in declino

Niente, c’è davvero poco da fare: l’Italia resta un posto dove il discorso pubblico si muove molto, molto, molto lentamente. Anzi: troppo lentamente. In primis in campo socio-culturale. Ci siamo liberati da poco – e forse non del tutto – dal fatto che il rock sia una «…musica per drogati e capelloni» (nemmeno troppi anni fa, i tassisti di un capoluogo di provincia toscano si rifiutavano di portare le ad un festival perché a dire loro, essendo un festival rock, era presumibilmente popolato di brutta gente che creava solo problemi: chi vi scrive ne è stato testimone diretto). Il fatto che piano piano nell’immaginario popolare si stia passando da Baglioni a Calcutta e da Venditti a Tommaso Paradiso, e che finalmente anche i gruppi nati da contesti realmente indie oggi possano ambire a radunare migliaia di persone ai loro concerti se lavorano bene per un po’ di anni, è, al di là dei gusti musicali personali, comunque una buona notizia. Qualcosa si muove. Perché per anni, in musica, nel mainstream, nel nazionalpopolare, ha regnato in Italia una calma piattissima, con sempre gli stessi nomi riciclati all’infinito e considerati gli unici degni di essere nominati sugli organi d’informazione a larga audience, in un alveo naturale che pareva non potesse andare oltre Al Bano e Sanremo da un lato e Vasco e Ligabue dall’altro lato, quello più “estremo” e ribelle, anche quando questi si sono fatti prima cinquantenni e poi addirittura sessantenni ed oltre. 

In questa grande palude, solo una cosa era venuta a perturbare l’immobilismo imperante tra gli anni ’70 e la prima parte di nuovo millennio: le discoteche. Lo spiega benissimo un lungometraggio uscito carsicamente nelle sale un paio d’anni fa, Disco Ruin, efficace e chirurgico nel descrivere ascesa e caduta del modello italiano di discoteca. Un modello che è stato assolutamente innovativo, pieno di stile, rivoluzionario rispetto al resto d’Europa, in grado di interconnettere cultura alta e cultura bassa come nient’altro in quegli anni; e un modello in grado di farsi anche, al tempo stesso, movimento popolare, appunto discorso pubblico (tanto da finire addirittura argomento di un libro scritto da un Ministro della Repubblica, il famigerato Dove andiamo a ballare questa sera?, anno 1988, firmato da Gianni De Michelis). 

Lunedì sera, la discoteca
Martedì sera, la discoteca
Mercoledì che mal di testa, ma sono andata alla discoteca
Giovedì sera, la discoteca
Venerdì sera non volevo andarci, ma Fabio è venuto a cercarmi e allora
Sono andata, alla discoteca
Sabato sera, la discoteca
Domenica alla discoteca

Exchpoptrue, “La discoteca”, 2003

Le discoteche già dagli anni ’70 e poi progressivamente nei due decenni successivi hanno creato nuovi stili di fruizione culturale, nuovi eroi e aperto nuove prospettive come niente e nessun’altro; hanno insomma fatto davvero capire che, come dire?, un’alternativa allo stare a casa e al vedere sempre le solite cose in tivvù decise da Mamma Rai o cucinate da Mediaset era possibile. E, anzi, forse era proprio necessaria, se si voleva stare al passo coi tempi, al passo con le cose più interessanti che succedevano in Europa e nel mondo. Lo hanno fatto, le discoteche, e lo hanno fatto in maniera diffusissima. Le discoteche erano diventate un rito di passaggio generazionale semplicemente necessario: la domenica pomeriggio per gli adolescenti, gli altri giorni della settimana per chi aveva dai vent’anni in sù.

Cosa è rimasto di tutto questo? Poco. Molto poco. Dannatamente poco. Ma soprattutto, è rimasto – doloroso paradosso – il fatto che le discoteche sono diventate le prime vittime di ciò che ai loro tempi avevano combattuto e scardinato: ovvero l’immobilismo, la conservazione, la stasi, il conformismo. Le discoteche avevano fatto fuori le balere e i dancing in un modo ben preciso: rinnovando profondamente il linguaggio etico ed estetico dei tempi, guardando anche all’estero più avanguardista, coraggioso, irregolare. Su questo hanno campato per anni, a partire dagli anni ’70, e grazie a questo sono diventate via via centrali nel nostro immaginario, perché troppo forte, troppo bello, troppo contemporaneo e seducente era quello che offrivano. Ma oggi le discoteche cosa stanno rinnovando? Quanto sono disruptive? Quanto sono concorrenziali nel mercato del mistero e della seduzione? La risposta è semplice: zero. 

È vero che oggi c’è internet. È vero che oggi ci sono Netflix, o Prime, o Disney Plus, e pure DAZN. È vero che un tempo quasi l’unico modo per cercare un partner affine per la vita o per la sera era uscire ed andare a ballare, mentre oggi puoi fare tutto comodamente da casa e da smartphone. È anche vero che le grandi forze economiche e dell’industria culturale ci hanno convinto che andare settimanalmente in un club con qualche centinaia o un migliaio di spiriti affini è noioso mentre l’esperienza vera sono i grandi festival e i grandi concerti (eh: è da questi ultimi che puoi estrarre molto più valore e guadagni). Tutto questo è vero. Ma vedere come in Italia le discoteche hanno ucciso sé stesse, o meglio, la parte migliore di sé, resta triste. E non se ne sta parlando abbastanza. 

Già da vent’anni le discoteche sono diventate un bastione della conservazione. Mai un’idea. Mai una sorpresa. Programmazioni sempre più commerciali e prive di coraggio o personalità, comparsate senza contenuti del fenomeno del momento (un tempo i tronisti, ora i trapper), una totale incapacità di rinnovare il proprio modello strutturatosi ancora negli anni ’60 e ’70 (…e all’epoca era un modello visionario). Chi ha approfittato con l’arrivo del nuovo millennio di questa incapacità, i club e/o le discoteche che si sono votate alla club culture di taglio europeo (focus sulla musica e non su cubiste, privé e altre faccende), sono dieci anni almeno che non sta facendo di meglio, con rare eccezioni: sempre gli stessi nomi, sempre le stesse serate, sempre le stesse dinamiche. Qualcuno magari sta ancora a galla, e per ora sta a galla bene, ma il trend è drammaticamente discendente

Lo è in tutta Europa. Non è una questione solo italiana. Ma in Italia fa più male, perché davvero come in pochi altri paesi al mondo la discoteca è stata da noi un rarissimo caso di convergenza di forze e di dinamiche: la ribellione al mainstream più benpensante senza però voler essere nicchia controculturale, architetti visionari a flirtare coi direttori artistici esperti non banali di musica e arte, imprenditori capaci di pensare out of the box, persone estrose e irregolari dalle aspirazioni metropolitane fianco a fianco coi mediomen di provincia attratti tuttavia reciprocamente uno dall’altro. Un terreno comune agitato, irregolare e pulsante: pieno di sorprese, di energie, di cortocircuiti inaspettati (lunghi una sera, o in qualche caso quasi una vita). Sono le stesse dinamiche che qualche anno più tardi hanno reso magica Ibiza, unica Berlino, forte Londra.

Oggi tutto questo non accade. Le discoteche sembrano un detrito del passato, oppure una media e innocua irrilevanza del presente: una cosa-che-facevano-i-propri-genitori nel caso peggiore, un posto scemo dove passare del tempo senza troppo impegno nei casi migliori. Non hanno né saputo né voluto rinnovarsi, impigrite dai soldi facili mietuti negli anni d’oro, e inerti hanno assistito – o stanno assistendo – alla loro decimazione, nella speranza che restando immobili le cose si sistemino da sole. 

Si illudono di poter sopravvivere attaccandosi alle cose che funzionano, al massimo questo, ma non si accorgono che sono cose che funzionano sì, ma lo fanno perché sono state elaborate e create altrove: il tronista reso famoso dalla televisione, il trapper reso grande da YouTube o da TikTok, il musicista o dj baciato in fronte dai talent show. La discoteca non crea più eroi. Non crea più dei Claudio Coccoluto (…e lui era stato il primo ad accorgersene), non crea più la Triade Leo Mas – Fabrice – Gemolotto, non crea più l’Insomnia, non crea più un nuovo Ralf, non crea più nomadismi urbani senza regole, non crea più mitologie. Vive di riflesso della gloria passata, immobilizzata dal panico della consapevolezza conscia o inconscia di essere via via sempre meno centrale nella creazioni degli immaginari collettivi. Chi può, dice: «Almeno fatturo. Finché dura, dura. E facciamolo durare. Inutile pensare ad altro, ora».

Brutta cosa. E sapete perché in Italia si fa fatica, più ancora che altrove, a venirne fuori? Torniamo ad inizio articolo. Al discorso pubblico. La trappola sta lì. Nei telegiornali, nei quotidiani, spesso anche nelle radio FM, insomma, ovunque tranne che lì dove la comunicazione è effettivamente contemporanea e veloce, si parla ancora delle discoteche come il luogo deputato ai giovani, allo sballo, al divertimento estremo, alla sfida alla normalità conservatrice. Per politici, questori, opinionisti e gente che pontifica senza sapere ciò di cui parla, le discoteche in Italia oggi sono ancora questo, sono ancora quello che erano nei ’70, negli ’80, nei ’90, quando invece non lo sono da un pezzo. 

Tutto questo è irreversibile? No. Ci stuferemo dei festival bulimici estivi. Ci stuferemo di divano e serie in streaming come unica alternativa invernale. Ci stuferemo dei social così come sono adesso (ci sono già i primi segnali), ci stuferemo dei concerti, perché ce li stanno facendo pagare sempre di più. Ma se le discoteche in Italia non si rendono conto della brutta fine che hanno fatto nell’immaginario collettivo dopo i decenni passati di splendore, e se non capiscono dove si forma davvero questo immaginario oggi (non più sui giornali, non più sulle televisioni, non più nei magheggi dei politici), facile che se passa il treno della rinascita loro lo perderanno, e lo perderanno male. Un Cocoricò felicemente rinnovato e ben gestito o uno Space che sbarca a Riccione non fanno primavera. C’è tutto un tessuto da ricostruire. Ripartendo dalle basi. Ripartendo dal coraggio. Ripartendo dalle idee. Oggi, tutto questo, è merce rarissima. Anzi – spesso è merce derisa. Da proprietari, gestori e direttori artistici che avevano vent’anni negli anni ’80 e ’90 ma ehi, siamo nel 2024.