Il 7 giugno è stato rilasciato finalmente “BRAT”, album tanto atteso dell’artista britannica classe 1992 Charli XCX, al secolo Charlotte Emma Aitchison. Questi 15 brani, tra cui i singoli che avevano preceduto l’uscita del disco (“Von Dutch” e “360”), rappresentano un viaggio nell’evoluzione musicale di una pop star mancata per scelta.
La consacrazione ufficiale come tale sembrava quanto più vicina dopo le uscite del quarto e del quinto album (“How I’m Feeling Now” e “Crash”), dove la cantautrice aveva messo da parte le sperimentazioni dirigendosi verso sonorità più commerciali. Ma è con “BRAT” che ci sorprende ancora, virando nuovamente verso l’hyperpop, movimento estremamente influente nei primi anni 2010, che ha avuto origine per la prima volta nelle trincee della scena nightcore di SoundCloud.
Charli ha lavorato nuovamente a stretto contatto con produttori come A. G. Cook, il fondatore dell’etichetta PC Music, che ha rivoluzionato il suono del pop contemporaneo. Musicalmente, quello che lei stessa definisce in un’intervista su Rolling Stone UK come “il disco più aggressivo e conflittuale”, è caratterizzato da suoni sperimentali, ritmi frenetici e melodie accattivanti. Le tracce sono spesso definite da un mix di distorsioni, sintetizzatori esplosivi e bassi potenti, che creano un’atmosfera caotica e vibrante. Tuttavia, non manca anche la sensibilità pop che ha sempre contraddistinto la musica di Charli, con ritornelli memorabili e testi coinvolgenti. Lodi unanimi dalla critica musicale e dal pubblico per quello che risulta fino ad adesso l’album con le migliori recensioni dell’anno, con 15.4 milioni di ascolti su Spotify a livello globale durante la giornata di debutto. Quel che più colpisce ancora di Charli è l’inclinazione alla sperimentazione sonora, da cui la sua carriera è stata caratterizzata fino ad ora, fondendo pop e avanguardia. Anche stavolta è riuscita a rivedere il suo lavoro senza fargli perdere di identità, sfidando le convenzioni del genere più tradizionali e consolidando la sua reputazione come pioniera dell’hyperpop. Il successo di questo sound è ben spiegato da Caroline Polachek in un’intervista di quattro anni fa per Arte TRACKS: “Incorpora il fatto di vivere in un mondo commercializzato e digitalizzato senza cinismo”.
L’artista britannica mette d’accordo tutti, capace di portare nella scena mainstream le sue radici ben piantate nell’underground e nel synth pop. Ai suoi esordi in adolescenza, l’attuale nome d’arte compariva già sulle locandine promozionali di svariati rave nella scena di Hackney, ai quali erano i suoi genitori ad accompagnarla. Charli sfugge dall’etichetta di popstar convenzionale e lascia spazio alle contaminazioni, decidendo autonomamente di non farsi per forza incasellare e sceglie la strada meno convenzionale ma di altrettanto successo.
Charli può essere tante cose, che piaccia o meno, non le interessa, come canta in “360”: «If you love it, if you hate it, I don’t fucking care what you think». Riesce a diramarsi come l’albero di fico a cui Sylvia Plath paragona la propria esistenza ne “La Campana di Vetro”, ma a differenza della protagonista del romanzo, non si sente impotente dinanzi all’incapacità di non saper quale fico cogliere. Mixa abilmente le sue doti, amalgamando le parole ai sintetizzatori, il suo eclettismo non ha confini non solo dal punto di vista sonoro ma anche da quello emotivo, che sfocia nella capacità di raccontarsi in maniera sincera e umana, da mean girl ad animo vulnerabile. Il tipo di dialogo e il tone of voice che utilizza con i suoi ascoltatori sono molto colloquiali e diairetici.
Affronta insicurezze che si traducono in invidie e gelosie in “Sympathy is a knife“, arrivando anche a parlare della paura della maternità in “I Think About It All The Time”. Incarna perfettamente un’ideale di sensibilità femminile contemporaneo, spiegando esattamente come vogliono essere percepite millenials e Gen Z oggi. Sintetizza bene il bisogno di non sentirsi limitate ma di poter spaziare ed essere contrastanti, di essere tristi e confuse, ma il tutto sentendosi estremamente ‘hot’. Il tutto si risolve nell’essere in maniera del tutto ordinaria “just a girl”, come recita il trend di TikTok diventato ormai manifesto generazionale. La cantautrice presenta anche aspetti frivoli e civettuoli, a cui spesso è stata confinata e incatenata la sfera femminile, portandoli all’estremo, intensificandoli come arma di rivincita e liberazione e affiancandoli a una componente più hardcore.
«È sicuramente adatto alle ragazze a cui piace fare festa, sudare e delirare» ha ribadito di “BRAT” a NME Charli XCX che, nel corso degli anni, ha criticato a più riprese il trattamento delle donne nell’industria musicale, ancora messe in discussione circa la loro validità. Non sono mancate neanche le critiche alla copertina del progetto, rispetto al quale la cantante ha ricordato quanto la costante richiesta della presenza delle donne nelle copertine dei loro album sia misogina e noiosa.
“BRAT” ha senza dubbio un ruolo importante nella rivendicazione delle donne nel panorama della musica elettronica, dominato ancora da uomini (fino al 2020 le producer arrivavano solo al 2,6%). Nello scenario pop molte artiste donne nell’ultimo anno stanno abbracciando il filone club, tra queste la coetanea tedesca Kim Petras, con la quale ha fatto il primo feat nel 2017 all’interno di “Pop 2”. Anche in Italia, ad esempio, si può citare la cantante Elodie con “Red Light”, suo primo clubtape, fino ad arrivare al chiacchierato tour come dj in cui è impegnata da mesi la bassista dei Måneskin, Victoria De Angelis.
Charli crea un’opera che non solo intrattiene, ma che è al contempo innovativa e accessibile, consentendo di far ballare chiunque in qualsiasi luogo come se fosse in un club e di dare sfogo alla propria libertà. “BRAT” è una celebrazione della sua identità poliedrica, che abbraccia la vulnerabilità e la forza, confermandola come una delle voci più dinamiche e rilevanti del nostro tempo.