Durante una competizione, la preparazione atletica e tattica, così come le qualità tecniche, sono fattori centrali, ma c’è poi un altro elemento fondamentale che può fare la differenza tra la vittoria e la sconfitta: l’agonismo.
Una parola semplice che, se non è gestita in maniera corretta, può portare uno sportivo a compiere una sciocchezza – si pensi allo sputo di Totti a Poulsen durante gli Europei 2004 o alla gomitata di Metta World Peace ad Harden – e che vede i Playoff NBA come probabilmente il più alto agglomerato di agonismo al mondo.
La grinta, la voglia di vincere, la voglia di battere l’avversario diretto e la squadra avversaria si combinano perfettamente in questa parola, espressa tramite il Trash Talking, cioè l’offesa o la derisione ripetuta durante tutta la partita. Nulla di personale, ma una vecchia strategia che ha il solo scopo di innervosire l’avversario per indurlo a sbagliare o a perdere la testa.
Può sembrare una strategia vile o poco corretta, e probabilmente lo è , ma in una Lega che si fonda sul “Win or Go Home” il fine giustifica i mezzi. O come diceva Sun Tzu: “Tutto in guerra si basa sull’inganno, se il tuo avversario è irato, tu irritalo“.
In NBA, molti giocatori si sono distinti in questa pratica, il più famoso è sicuramente Kevin Garnett, che arrivò a dare del malato di cancro (ma lui ha sempre smentito) a Charlie Villaneuva, ala dei Detroit Pistons, peraltro per via dell’alopecia. Ma anche Sir Charles Barkley, Larry Bird, Kobe Bryant, Tim Hardaway e Gary Payton furono grandi esponenti dell’argomento.
Proprio The Glove rese ancor più iconica la finale tra i suoi Seattle Supersonics e i Chicago Bulls del ’96 grazie alla doppia sfida, in campo e a parole, tra lui e Michael Jordan. Ebbene sì, MJ, per chi non lo sapesse, è considerato uno dei più grandi trash talker della storia della Lega.
Johnny Bach, ex assistente ai Bulls, ha raccontato che durante una sfida Playoff del ’95 contro gli Charlotte Hornets, Michael apostrofò il piccolo Muggsy Bogues – alto 160 cm – prima di un tiro con un inelegante “Shoot it, you fucking midget!“, che tradotto suonerebbe come “tira fott**o nano!”.
A volte sapeva essere particolarmente pungente, come nella serie contro i Cavs del ’93. Il team dell’Ohio si era visto sconfiggere dal famoso buzzer-beater soprannominato The Shot di Jordan nel ’89, ed ora era nuovamente un serissimo candidato per le finali, avendo aggiunto al nucleo storico Gerald Wilkins, preso appositamente per fermare MJ e soprannominato appunto The Jordan Stopper. Ad ogni canestro la panchina bianco-blu si sentiva ripetere “He can’t guard me, he can’t guard me”.
O come quando diede il benvenuto a un giovanissimo Dikembe Mutombo, appena sbarcato nella NBA, il quale gli disse che avrebbe sbagliato il secondo tiro libero, nel tentativo di disturbare Sua Maestà in lunetta. Non poteva ancora sapere quanto Michael sapesse essere diabolico: chiuse gli occhi, tirò il libero, fece canestro e con superiorità mista a ironia disse a Mutombo “welcome to NBA, Kid!”.
Sempre Mutombo venne deriso vedendosi rifilare il suo stesso Finger Wag – il centro congolese era solito fare “no” con il dito indice dopo aver stoppato un avversario – dopo che MJ gli schiacciò addosso in un match tra Bulls e Hawks.
I rookie erano spesso sue vittime, probabilmente perché volevano mettersi in mostra, e Michael sapeva come rimetterli al proprio posto. D’altronde lui arrivò nella Lega quando i veterani erano giocatori del calibro di Magic Johnson, Julius “Doctor J” Erving e Larry Bird, gente che sapeva come metterti in riga. In particolar modo il 33 dei Celtics, considerato il più grande trash talker di sempre.
Successe anche anche a Reggie Miller – uno dei migliori tiratori nella storia della NBA e uno dei pochi che arriverà alle mani con Jordan – il quale in un momento di euforia, durante uno dei suoi primi match da professionista, fece l’errore di vantarsi con MJ di aver messo a segno 12 punti contro i suoi miseri 4 nel primo quarto. La sfida personale finirà 44 a 12, indovinate per chi? Uscendo dal campo Jordan guardò negli occhi la giovane guardia dei Pacers e sentenziò “Be sure, and be careful, you never talk to Black Jesus like that”.
Altra vittima illustre fu appunto Gary Payton, il quale, nella sua stagione da rookie nel 1990, fece l’errore di affermare prima di una partita di pre-season contro i Bulls “Non mi interessa chi diavolo sia Michael Jordan. Ok, è un buon giocatore, ma non è che sia chissà chi”. Non contento, durante il match non perse occasione di prendersi beffa di His Airness, che passò invece gran parte della partita seduto in panchina.
Jordan non fece e non disse nulla ma alla prima partita ufficiale contro Seattle, appena scesi in campo, si rifiutò di dare la mano al giovane Payton e poi minaccioso esclamò a voce alta “Il rookie è roba mia!“. Il playmaker dei Sonics concluse la partita a zero punti, finendo in panchina per la sua scarsa incisività e venendo più volte canzonato da MJ – il quale nel frattempo ne aveva messi 33 a referto – che ad ogni passaggio non perdeva occasione di deriderlo “Era questo ciò di cui parlavi nella pre-season?” e ancora “Il mondo reale è questo. Benvenuto in NBA, figliolo”.
Una battaglia che continuò anche nelle Finals del ’96, in cui i due rivali non smisero un attimo di spararsi frecciate a vicenda, ma che in campo vide trionfare, come sempre, i Chicago Bulls.
Non andò meglio a Nick Anderson, guardia degli Orlando Magic e allora compagno di squadra di Shaquille O’Neil. Il centro raccontò la volta in cui MJ predisse ad Anderson tutto ciò che avrebbe fatto: “Arriverò di fronte a te, poi mi farò passare la palla tra le gambe e finterò il tiro. Mentre sarai in aria metterò a segno un tiro semplice e a quel punto guarderò la delusione nei tuoi occhi”. Ovviamente andò esattamente così.
Nemmeno i propri compagni di squadra venivano risparmiati dalla fame di competizione di Jordan. Ne sa qualcosa il povero Rodney McCray, esterno da rotazione, che chiuse la carriera ai Bulls vincendo il titolo nel 1992-93. Durante un allenamento si trovò MJ a urlargli in faccia: “Sei un perdente Rodney! Sei sempre stato un perdente!”
La più divertente, però, è probabilmente la volta in cui in una partita tra Bulls e Jazz, Jordan schiacciò addosso a John Stockton, un eccelso playmaker con il fisico di un ragioniere. La cosa scatenò l’ira di Larry Miller, proprietario dei Jazz, che urlò a MJ “wow, bravo, prenditela con uno della tua taglia”. Al possesso successivo la schiacciata la subì il centro Mel Turpin, 211 cm, con Michael che rivolse a Miller un ironico “Lui è abbastanza grosso?“.
Il trash talking di Michael Jordan non deve però dare un’impressione negativa su di lui, infatti esprime al meglio la sua mentalità vincente. Pur di vincere era disposto a qualsiasi cosa, la vittoria era l’unica opzione esistente per MJ e qualunque mezzo era lecito per arrivarci. Tutti quelli attorno a lui dovevano essere in possesso di questa fame e il caso di McCray è l’emblema di come spingesse al limite anche i propri compagni per arrivare al solo obiettivo finale: la vittoria del titolo.
Per la cronaca, nessun avversario si è mai lamentato delle tecniche intimidatorie di Jordan, anzi, tutti hanno sempre avuto grande rispetto per la sua fame di vittoria. Qualcuno ha provato ad usare contro di lui la stessa arma, pagandola, però, a caro prezzo, cioè con la sconfitta.
Chiedete info a Jimmy Jackson, ex guardia dei Nets, che cercò di disturbare Michael con del sano trash talking e venne liquidato con un laconico “Amico, ma sbaglio o quelle che indossi sono Jordan?”.