Il cashmere è la fibra tessile più ambita durante la stagione invernale per via della sua morbidezza e termicità, nonché una delle più prestigiose e di valore. La sua fama lo precede perché da sempre considerato l’epitomo del lusso e un simbolo di qualità, di un’eleganza discreta e senza tempo ma anche di esclusività e ricercatezza: il cashmere è indiscutibilmente il principe dei materiali. Come però accade molto spesso (per non dire tutte le volte) con ciò che è “costoso” o “elitario”, il mercato trova una strada più economica o più semplice per soddisfare i desideri di tutti consumatori e gli assidui contenuti social sui cosiddetti “dupe” ne sono la prova evidente.
E questo è ovviamente accaduto anche con il cashmere, il cui fascino oggi sembra essere quasi svanito passando da essere il materiale preferito dell’élite all’ennesimo “scam” del mondo della moda. Nei negozi e nei mercati di tutte le città, infatti, è ormai possibile trovare prodotti in cashmere per qualsiasi prezzo: da sciarpe a qualche decina di euro fino a maglioncini con cartellini che superano le quattro cifre. Perché quindi spendere tanto quando è possibile trovare la stessa cosa a un prezzo più basso?
Ovviamente il discorso non può essere banalizzato e ridotto a una gigantesca truffa o cospirazione organizzata dal mondo della moda e sì, il cashmere è davvero più costoso di tanti altri materiali. Per spiegare il motivo è necessario innanzitutto chiarire le origini del cashmere e capire da dove arriva, come viene lavorato e cos’è che lo rende così “prezioso“.
Il cashmere è una fibra tessile ottenuta dal pelo di una specifica tipologia di capra (e non una pecora come molti pensano) proveniente in origine da una regione situata tra India, Pakistan e Cina e chiamata “Kashmir”, da cui il nome del materiale. A causa del clima invernale rigido che può raggiungere i -30 gradi e dei forti sbalzi di temperatura che si verificano nella zona, questa specie di capre si è adattata all’ambiente sviluppando un doppio vello caldissimo e molto spesso, diviso in uno strato più esterno (chiamato giarre), con peli spessi e rigidi che hanno il compito di proteggere dall’acqua, e uno più interno (chiamato duvet) con una peluria più sottile, corta e soffice in grado di mantenere costante la temperatura del corpo dell’animale e di proteggerlo quindi sia dalle alte sia dalle basse temperature. Proprio questa parte più fine è quella che verrà utilizzata per realizzare i nobili filati in cashmere.
Il clima estremo è quindi l’elemento che permette lo sviluppo di un pelo visibilmente più lucido, leggero, morbido e da cui si ricava una fibra tessile fino a tre volte più isolante rispetto alla lana. Queste caratteristiche, insieme ad alcune proprietà tecniche come una maggiore igroscopicità (la capacità di assorbire l’umidità e quindi di rendere il tessuto traspirabile), antistaticità (in modo da non attirare la polvere) e resistenza all’infeltrimento (cioè quando le fibre tessili si attaccano e si infittiscono causando un restringimento e/o indurimento del capo), rendono il cashmere un materiale unico nel suo genere. Esistono infatti anche altre fibre pregiate o addirittura più rare del cashmere, ma quest’ultimo è così versatile da poter essere trasformato in qualsiasi prodotto.
Ovviamente però non tutto il cashmere è uguale e per questo la qualità viene valutata e stimata in base al colore, alla finezza e alla lunghezza delle singole fibre. La prima classificazione, in particolare, privilegia la fibra di colore bianco perché più facile da tingere, quindi che richiederà meno step di lavorazione che potrebbero danneggiare il risultato finale. Successivamente il materiale viene invece suddiviso in base al diametro delle fibre: più questo è piccolo (quindi le fibre si presentano lunghe e sottili), più il materiale è considerato pregiato poiché più morbido e in grado di mantenere meglio la forma e di resistere al pilling, ovvero quel fastidiosissimo processo fisico che comporta la formazione di “palline” di fibre sulla superficie del tessuto.
Anche se spesso si trovano prodotti categorizzati come cashmere di “Grado A”, “B” o “C”, è importante specificare però che non esistono dei veri e propri criteri che misurano la qualità del cashmere per il mercato, ma solamente “classifiche” per scopi di marketing. In linea generale, i principali fornitori di cashmere sono Iran, Mongolia, Cina e Afghanistan ma la materia prima più fine e pregiata (con un diametro di 14-15 micron) è sicuramente quella che arriva dagli altopiani della Mongolia Interna cinese, dove il clima è ancora più rigido e il pelo delle capre ancora più lungo e sottile.
Ok ma quindi perché il cashmere costa così tanto rispetto ad altri tessuti?
Il motivo principale è legato al fatto che, mentre una pecora è in grado di “produrre” 3 chili di lana all’anno, una capra da cashmere solamente 200 grammi, una quantità sufficiente a realizzare a malapena una sciarpa. Se si considera quindi che per realizzare un maglione è necessaria la fibra ottenuta da circa cinque o dieci capre, allevate specificatamente in una zona precisa del mondo, è ovvio che la quantità di materia prima disponibile è estremamente limitata. La rarità della fibra, poi, aumenta ancora se si tiene presente che questa può essere “raccolta” unicamente una volta all’anno. Infatti solamente quando arriva la primavera e le capre iniziano la muta i pastori possono pettinare (e non tosare) delicatamente gli animali e ottenere le fibre necessarie del “duvet”.
Oltre alle limitazioni legate all’animale in sé, un altro elemento fondamentale che determina il prezzo molto alto del cashmere è la delicatezza del materiale, quindi la necessità di attenzione e abilità uniche durante ogni processo di lavorazione. Dopo essere stati attentamente asportati e raccolti con l’apposito pettine per non essere danneggiati, i peli vengono sottoposti a un primo lavaggio, al fine di rimuovere i residui di polvere e le impurità più grossolane, e poi alla fase di degiarratura. Come suggerisce il nome, questo step ha l’obiettivo di eliminare le giarre, quindi la parte esterna più grezza del manto, per isolare solamente la fibra interna più fine: al termine di questa operazione, che può essere eseguita anche diverse volte, la quantità di fibre ottenuta passa dai due chili di tutto il mantello (sporcizia compresa) ai soli 150/200 grammi citati prima.
A questo punto il materiale è pronto per essere sottoposto a tutte le lavorazioni che permetteranno poi di raggiungere il semi-lavorato finale, quindi il tessuto. Dopo la degiarratura è quindi il turno della cardatura, per sbarazzarsi di eventuali impurità ancora presenti e allineare le fibre districate, eventualmente della pettinatura e, a seconda del metodo utilizzato, della tintura. Proprio quest’ultimo passaggio è forse il più delicato e quindi quello che determina la qualità (e il prezzo) del prodotto finale: qualsiasi sostanza chimica o lavorazione eccessiva potrebbe infatti danneggiare la fibra, compromettendo tutto il resto del lavoro. L’ultimo step è infine la filatura, che consiste nel ritorcere le fibre per ottenere un filo compatto ma sottile e regolare. A seconda della torsione a cui si sottopongono le fibre si possono poi ottenere filati dallo spessore differente e quindi dal diverso utilizzo: quelli più ritorti, quindi più compatti, per prodotti più leggeri, mentre quelli meno lavorati e più “nobili” per maglieria e abbigliamento invernale. Lo stesso concetto andrà a influenzare anche la tessitura vera e propria poiché a seconda del filato utilizzato si otterranno tessuti di diversa larghezza e spessore.
Per riassumere, il prezzo di un prodotto in cashmere dipende ovviamente dalla qualità, che a sua volta dipende da numerosissimi fattori: alcuni fissi (come la quantità limitata di materia prima e i processi altamente specializzati) e altri invece che cambiano a seconda del capo o accessorio in questione. Se un maglione, per esempio, viene realizzato con un filato di cashmere di scarsa qualità e più economico, quindi con fibre corte, formerà più rapidamente e con più facilità i pallini citati in precedenza. Essendo questi pallini il risultato della rottura delle fibre a causa dello sfregamento contro una qualsiasi superficie (quindi anche tra di loro solamente indossando il capo), tutti i prodotti in cashmere sono in realtà soggetti al pilling: quelli composti da fibre lunghe e fini, però, si rovineranno con meno facilità e, anzi, tenderanno a diventare più morbidi con il tempo.
Un altro fattore che influenza il valore finale di un prodotto è quanti “capi” sono presenti nel filato utilizzato, quindi quanti fili sono stati intrecciati insieme: il filato a due capi, per esempio, è di qualità superiore rispetto a quello singolo poiché più resistente (la doppia torsione compensa la torsione del sottile filo singolo) quindi meno incline a bucarsi. Esistono poi anche filati a più capi (3-ply o 4-ply) che però non aumentano la qualità ma solamente il peso, il calore e la possibilità di mescolare più colori.
Un ultimo motivo per cui il costo di un prodotto potrebbe risultare più basso rispetto alla media è l’utilizzo di fibre differenti mescolate nella costruzione del tessuto, le quali ovviamente abbassano la quantità di cashmere e quindi il prezzo finale: il tutto a discapito delle qualità per le quali una persona dovrebbe scegliere il cashmere, come la leggerezza, la morbidezza e la possibilità di non doverlo stirare.
A causa della diffusione sempre più rapida di prodotti in cashmere di scarsa qualità, la richiesta da parte del pubblico è ovviamente aumentata e così sempre più persone acquistano capi o accessori a prezzi molto più bassi rispetto al valore del “vero” cashmere. Questo, insieme a una progressiva espansione delle libertà e del diritto alla proprietà privata da parte del governo della Mongolia, ha fatto sì che i pastori aumentassero a dismisura i loro greggi per poter soddisfare la domanda del mercato, duplicando rispetto al 2000 il numero di animali fino a raggiungere i 70 milioni. Il risultato? Il 70% circa dei terreni da pascolo del paese è oggi degradato, soggetto a siccità e privo di erba a sufficienza per permettere alle capre di sopravvivere. Di conseguenza, poi, anche la qualità del cashmere è diminuita, con le fibre che diventano sempre più grosse e che vengono quindi poi scartate dalla produzione di capi di alta qualità, dando il via a un ciclo continuo che danneggia prima di tutto il pianeta. Per fermare questo sovrasfruttamento del territorio e la progressiva desertificazione della Mongolia, nel 2009 Loro Piana ha introdotto il “Metodo Loro Piana” in Inner Mongolia che promuove un modello di sviluppo sostenibile per creare un equilibrio tra animali, ambiente e popolazioni locali, mentre nel 2014 il gruppo Kering insieme alla società mineraria Rio Tinto e in collaborazione con Wildlife Conservation Society, NASA e l’Università di Stanford ha dato il via al “Sustainable Cashmere Project” per risolvere “la crisi del cashmere”.
Cosa si può fare quindi per scegliere consapevolmente e spendere meglio? Sicuramente acquistare prodotti di qualità che non si deteriorino dopo i primi utilizzi e che non distruggano il pianeta. Per questo vi suggeriamo cinque trucchi per capire se vale la pena acquistare un capo, oppure se è meglio trovare un’alternativa (magari vintage, perché no).
1. Prima di tutto è fondamentale leggere le etichette dei prodotti che troviamo. Come già accennato prima, un capo o accessorio che non è 100% cashmere non presenterà mai le stesse proprietà del materiale “puro” e c’è quindi da chiedersi se ne valga effettivamente la pena comprarlo. Perché scegliere il cashmere se non si avranno poi le proprietà del cashmere?
2. Per essere sicuri che la qualità del prodotto sia buona è sufficiente toccare la superficie del capo, che deve essere sì morbida ma non eccessivamente perché questo potrebbe significare l’aggiunta di trattamenti chimici o di lavaggi eccessivi che accorciano la vita del prodotto. Se poi le dita risultano appiccicose o scivolose solamente dopo aver sfiorato un vestito, sicuramente è a causa di additivi che rendono il materiale più morbido ma anche più fragile e meno duraturo. Ricordate: il cashmere migliore diventa più morbido dopo averlo indossato.
3. Sempre con il prodotto in mano, sfregate la superficie. Se si formano immediatamente gli ormai celebri pallini, significa che il capo è stato realizzato con una grande quantità di fibre corte. Cosa significa questo? Scarsa qualità. E chi vorrebbe spendere dei soldi per qualcosa che si rovina ancora prima di comprarlo?
4. Osservando il capo alla luce, le maglie del tessuto devono essere fitte e regolari (più lo sono, più il capo è buono) e le fibre non devono essere più lunghe di 1/2 millimetri rispetto alla superficie. Se questo accade, invece, non significa che sono le fibre stesse ad essere più lunghe (quindi di maggiore qualità) ma al contrario che sono state aggiunte esternamente fibre corte per rendere l’aspetto più soffice e gradevole.
5. L’ultimo test, e forse anche il più lampante, consiste nel tirare (delicatamente) il bordo dell’indumento dai due lati: se il capo non torna alla sua forma originale significa che non è stato realizzato con le maglie sufficientemente fitte o che le fibre sono di scarsa qualità.