In un breve lasso di tempo abbiamo assistito a non pochi casi mediatici in cui diverse case di moda venivano accusate di razzismo.
Il primo esempio lo abbiamo avuto con H&M, che nel gennaio del 2018 ha diffuso un’immagine ritraente un bambino di colore con addosso una felpa che riportava la scritta COOLEST MONKEY IN THE JUNGLE. La pubblicità del prodotto ha scatenato una vera e propria rivolta contro la catena svedese, che nonostante abbia ritirato l’articolo e chiesto scusa, ha subito un boicottaggio da parte di numerose star, tra cui il suo collaboratore The Weeknd, che ha prontamente annunciato la fine della partnership. Inoltre, si vocifera che da quel momento il marchio sia in costante diminuzione di vendite, per non parlare poi degli store distrutti in Sud Africa. La madre del bimbo in questione, però, non si è sentita minimamente offesa e ha addirittura accusato i protestanti di ipocrisia.
A seguire è stata Prada, con la collezione di mascotte Pradamalia. La capsule collection comprendeva una serie di animaletti frutto della fantasia della maison milanese, tra cui la scimmietta Otto. Quest’ultima, secondo il web, ricordava troppo il cortometraggio animato Little Black Sambo, in cui vengono rappresentati degli stereotipi caricaturali della popolazione africana. Il brand ha provveduto immediatamente al ritiro dei prodotti, diffondendo un comunicato stampa di scuse e annunciando la formazione di un consiglio consultivo per gestire i temi legati a diversità e inclusione. È doveroso precisare però, che il design era stato affidato all’agenzia newyorkese 2×4, mentre la palette cromatica era stata definita dall’ufficio stile interno, quindi ci risulta difficile attribuire l’offesa intenzionale a due menti creative estranee che in realtà volevano proporre una nuova interpretazione di un simbolo ricorrente nell’archivio grafico. Inoltre, Miuccia Prada ha sempre supportato la diversità culturale, anche in tempi non sospetti, dimostrando grande lungimiranza. Fortunatamente in poco tempo la faccenda è finita nel dimenticatoio, senza riscuotere danni nei confronti del brand, che ha saputo rialzarsi concentrandosi sulla moda fine a se stessa.
Non possiamo non citare poi uno dei fatti che ha scatenato maggiori subbugli, ovvero quello di Dolce&Gabbana. Per annunciare l’esclusiva sfilata a Shanghai, la maison italiana ha lanciato una campagna video in cui la cultura orientale e quella italiana si incontravano mediante degli stereotipi a prima vista scherzosi e non troppo offensivi. Ma non l’ha pensata così un utente cinese, che ha replicato con delle proteste via direct a Stefano Gabbana in persona. Da quel momento la situazione è totalmente degenerata, facendo emergere un lato della moda, ma più in generale del nostro Paese, che non avremmo mai voluto vedere. Lo stilista ha infatti risposto rivolgendo a quella persona degli insulti irripetibili, che offendevano l’intera popolazione cinese. Dopo che gli screenshot della chat sono stati condivisi pubblicamente, D&G ha comunicato goffamente che i loro profili erano stati hackerati. Ovviamente nessuno ci ha creduto e anzi, Instagram ha subito un’invasione di post in cui i capi del brand venivano distrutti. Per salvare il salvabile, i due designer hanno diffuso un video di scuse in cui ci mettevano la faccia, anche se forse ormai era troppo tardi.
Infine troviamo Gucci, che come parte della collezione autunno/inverno 2018 ha proposto un maglione nero a collo alto che fa da face mask, completato un ritaglio per la bocca circondato da labbra rosse. Proprio durante il Black History Month, alcune persone hanno notato la somiglianza tra il capo e la Blackface, maschera utilizzata nell’Ottocento dai bianchi per schernire gli schiavi. Sebbene Alessandro Michele si sia ispirato all’arte di Leigh Bowery, la maison fiorentina ha saputo assumersi le proprie responsabilità scusandosi pubblicamente per l’incomprensione. Non è bastato però a Spike Lee e a 50 Cent, che hanno dichiarato di non voler più indossare nulla del marchio. Per placare i dissidi, il CEO Marco Bizzarri ha chiesto l’aiuto di Dapper Dan per instaurare quattro iniziative a lungo termine che possano coinvolgere nazioni e culture diverse.
Giunti a questo punto ci chiediamo: davvero alcune delle aziende che da decenni hanno scardinato i più svariati preconcetti del costume possono essere accusate di razzismo? Oppure il web ha solamente amplificato la malizia?