Il design anonimo delle sedie in plastica

Risale all’inizio di questa estate la pubblicazione di un video in cui un’invincibile sedia di plastica resiste alla travolgente forza di un tornado, mentre tutto ciò che le sta attorno viene violentemente scaraventato e distrutto in pochi attimi dal cataclisma. La clip, estratta da un servizio trasmesso durante un telegiornale americano, è comparsa nei “per te” di molti utenti di TikTok destando immediatamente scalpore per la scena epica che, come da tradizione per il social, è stata adeguatamente accompagnata dalle note di una canzone: in questo caso “Bury the Light”, brano del videogioco Devil May Cry 5 che ironicamente recita “I am the storm that is approaching”.

@chrisyoungmusic #marvel #avengers ♬ original sound – Chris Young

Nella sezione commenti si alternano emoji, battute e anche persone che cercano di dare una spiegazione a questo fatto apparentemente surreale: la più quotata risulta l’ipotesi secondo la quale, nonostante le apparenze, non si tratti veramente di una sedia di plastica, ma di una pesantissima seduta in ferro verniciata di bianco. Altri, invece, scherzano sul fatto che sia la versione realistica della “Vergil’s chair”, ovvero quella sedia di plastica sulla quale siede Vergil – personaggio del videogioco sopracitato – all’interno di un meme tratto da un momento chiave della storia del gioco. Questi due casi, riferiti alla presenza mediatica della classica sedia di plastica, ci suggeriscono quanto un oggetto così comune e considerato con superficialità sia in realtà estremamente radicato nella nostra quotidianità e faccia ormai parte di quell’immaginario che tutti condividiamo indipendentemente dalla nostra provenienza geografica.

Nel 2017 è stato il Vitra Design Museum a dedicare alla sedia monoblocco in plastica bianca una mostra, intitolata “Monobloc – A Chair for the World” e allestita all’interno degli spazi del Vitra Schaudepot, l’edificio progettato dal duo di architetti Herzog & de Meuron di cui vi avevamo parlato in un articolo dedicato al ruolo dei mattoni nell’architettura. Il percorso espositivo, affrontando i contributi di grandi designer come Verner Panton e Vico Magistretti, mirava a delineare la storia della sedia monoblocco in plastica, fino a indagare le motivazioni alla base dell’incredibile successo di quello che potremmo definire come l’esemplare per eccellenza: la sedia bianca con lo schienale forato su cui tutti ci siamo seduti almeno una volta, magari testandone la resistenza delle gambe tramite un rischioso dondolamento all’indietro. “È il pezzo d’arredamento più usato al mondo” recita l’incipit del comunicato stampa diffuso da Vitra.

Foto: Vitra Design Museum

Impilabile, leggera e resistente, ma anche economica, facile da reperire pressoché ovunque e comoda quanto basta per usarla in giardino, sui balconi e alle fiere di paese. La sedia in plastica bianca è uno di quegli oggetti così democratici per sua natura, da essere riuscito a imporsi su scala mondiale come vero prodotto di consumo e senza alcuna pretesa estetica o stilistica. A tutti gli effetti è possibile etichettarla come design anonimo (se non sapete a cosa ci stiamo riferendo qui trovate un articolo interamente dedicato al design anonimo) in quanto, nonostante qualcuno ne abbia seguito la progettazione, non la conosciamo per il suo designer, ma per essere un oggetto presente nelle nostre vite. È anche per questo che non esiste un modello unico la cui produzione è detenuta in esclusiva da una sola azienda, ma capita di imbattersi in numerose varianti che condividono le stesse caratteristiche generali con alcune differenze nei dettagli più specifici. Le aperture sullo schienale, la sezione delle gambe o le finiture superficiali, sono solo alcune delle caratteristiche che possono variare in funzione dell’azienda produttrice e dell’area geografica in cui ci si trova. Tutto ciò, però, non esclude il fatto che si possa parlare di un oggetto giunto al suo più evoluto grado di sviluppo, uno sviluppo che, in questo caso, si misura nella semplicità del pezzo che deve essere facilmente riproducibile su scala industriale. Ci troviamo davanti a quello che potremmo definire l’archetipo di questa categoria oggettuale? Ma soprattutto, la sedia in plastica bianca ha raggiunto la sua forma definitiva?

Proprio la sua forma è il frutto di un processo di ottimizzazione industriale che, nel corso degli anni, ha mirato all’ottenimento del risultato più resistente e durevole, che fosse allo stesso tempo il più economico e rapido da produrre. La sedia in plastica bianca, infatti, possiede la quantità di materiale strettamente necessaria per renderla stabile e solida, andando a concentrarne di più nelle sezioni maggiormente sollecitate e lasciando più sottili quelle che devono sopportare sforzi minori. Ridurre al minimo il materiale significa abbassare i costi derivanti dalla materia prima, ma è anche utile per ottenere il minor peso possibile, i cui effetti si misurano sulla migliore usabilità da parte delle persone e sulla riduzione dei costi di trasporto sostenuti dalle aziende. A livello produttivo, la tecnica impiegata è quella dello stampaggio a iniezione: il materiale polimerico in forma liquida viene spinto in pressione all’interno di uno stampo e, in pochi secondi, si ottiene la sedia pronta per essere utilizzata. Si tratta di un procedimento estremamente veloce ed economico che consente alle industrie di sfornare un’incredibile quantità di pezzi a prezzi bassissimi.

Come ricorda la mostra al Vitra Design Museum, però, nel corso del tempo si sono susseguiti numerosi designer che si sono interessati alla sedia in plastica e che hanno cercato di offrire la loro personale interpretazione di un oggetto così comune. Ciò avvenne sopratutto tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento, durante quel periodo in cui la plastica si diffuse come nuovo materiale dalle incredibili capacità fino ad allora mai viste. Fu così che nacquero decine e decine di sedie in plastica monoblocco dalle forme e dalle cromie più disparate, prendendo parte a quel panorama di oggetti che, attraverso l’utilizzo della plastica lucida dai colori pop, concretizzava l’immaginario al tempo diffuso sul mondo spaziale e sul futuro. Col passare del tempo questa ricerca sulla sedia in plastica non venne meno, tanto che anche negli ultimi anni possiamo trovare degli esempi validi di innovazione sul tema. Uno fra tutti appartiene a un giovane designer italiano che ha scelto di impegnarsi non tanto sull’evoluzione dell’oggetto, quanto sul miglioramento della sua fase produttiva. Alessandro Stabile, progettista milanese, ha dato vita alla Chair 1:1, una sedia in plastica azzurra che si potrà acquistare smontata come se fosse un modellino di un’auto o un’action figure da costruire. Il focus è stato portato sulla riduzione del volume degli stampi industriali, operazione che ha consentito di abbattere ulteriormente i costi industriali e di ottenere un prodotto nettamente più conveniente da spedire, poiché facilmente assemblabile direttamente dall’utente che non necessita di chiodi, viti o attrezzi.

Sebbene si possa essere portati a pensare che la sedia in plastica bianca non appartenga alla sfera del design, forse per il suo ridotto appeal agli occhi delle persone che spesso la considerano una brutta seduta, è proprio in virtù di tutte le caratteristiche che vi abbiamo raccontato che essa rappresenta a pieno titolo un’incredibile dimostrazione di progettazione. Abbandonate velleità stilistiche o iconici segni di riconoscimento di celebri designer, questa sedia si è venuta a formare esclusivamente per ragioni pratiche e funzionali, riportando così il discorso del design a quella sfera più autentica che lo vede impegnato nell’ideazione di oggetti veramente per tutti e liberi dalle mode e dalle tendenze. Ora la considerate ancora così brutta?