C’è stato un piccolo, luminoso momento durante questa pandemia in cui mi sono sentita davvero migliore, quando a giugno 2020 ho sbirciato il conto corrente e ho scoperto che per la prima volta nella mia vita stavo risparmiando.
La migliore versione di me aveva smesso di bere gin tonic da 12 euro, certo, ma soprattutto aveva smesso di acquistare vestiti. Non è ironico come la migliore versione di me fosse anche quella a cui si rivolgevano le newsletter dei brand da cui avevo appena smesso di comprare?
Anche loro, proprio come noi, hanno scoperto che il mondo può sopravvivere senza comprare un nuovo must have a settimana. Qualcosa dentro di noi è cambiato, sarà che l’arrivo del Covid ci è sembrato l’inizio della fine della vita come l’abbiamo sempre conosciuta, sarà anche che – nonostante tutto quello che ci raccontiamo nei post a tema autostima su Instagram – indossare qualcosa di fresh senza che nessuno ci noti (ancora meglio, ci invidi) non ci regala nessuna soddisfazione, fatto sta che siamo tutti meno inclini a cedere alle nostre cotte consumistiche momentanee.
Spendiamo sempre più tempo dentro i grandi e-commerce fashion, ma queste nostre sessioni di shopping coincidono sempre di più a un’esperienza di insoddisfacente masturbazione. Il primo ostacolo è sempre quello della scelta, di cosa ho voglia – pardon – bisogno, quale brand ha davvero qualcosa da offrirmi.
Proviamo il brivido di spingere il prodotto fino al carrello, inseriamo il codice sconto (altrimenti cosa mi sono iscritta alla newsletter del brand a fare?), arriviamo al punto di digitare il nostro indirizzo per calcolare le spese di spedizione, ma poi con violenza chiudiamo la pagina e giuriamo a noi stessi che non ci penseremo mai più. Un’erezione triste cantava un vecchio saggio.
Questo genere di comportamento si chiama messy middle e indica quella fase di esplorazione dello shopping online dove ci si muove con fare confuso tra più prodotti, quando stiamo cercando di valutare se vale la pena spendere dei soldi o no. Non so se ci stiamo davvero abituando a comprare meno, quello che è certo è che ci stiamo esercitando a comprare meglio.
Secondo il report The State of Fashion 2021 scritto da McKinsey in collaborazione con Business of Fashion, i temi centrali per il futuro dell’industria della moda sono il rapporto con il progresso digitale, la trasparenza sulle condizioni degli impiegati e l’impegno a produrre meno.
Siamo pronti a comprare di meno ma a pretendere molto di più. Il Covid ha accelerato un cambiamento sociale che era già in atto: siamo più inclini a umanizzare un brand, vogliamo dargli un volto, aggiungerlo agli amici e chiedergli di mostrarci cosa cela nella sua anima. Abbiamo iniziato a chiederlo agli influencer e ora facciamo lo stesso con le aziende, vogliamo sapere la loro opinione sui temi che ci stanno a cuore (sì, che stanno a cuore a noi) e la vogliamo velocemente. Mentre aspettiamo di capire chi sono gli Avengers della moda, buoni e cool pronti a salvare i nostri armadi e le nostre anime, come possiamo costruire il nostro stile personale? Perché va bene la svolta ecologica, ma qui nessuno ha ancora rinunciato ad autodeterminarsi attraverso la moda.
A quanto pare sempre più persone pensano che la risposta a questa domanda sia il vintage. Secondo il report annuale della piattaforma Thredup, il mercato dell’usato duplicherà il suo valore entro il 2025. Non solo, diventerà due volte più grande del mercato del fast fashion entro il 2030.
A guidare questa rivoluzione ci sono ovviamente i più giovani: sempre secondo Thredup, nell’ultimo anno più del 40% dei consumatori millennial e gen Z ha acquistato almeno un capo di seconda mano. Complice di questa scelta è il boom della vendita del vintage online, in particolare attraverso la vetrina più potente degli ultimi anni: Instagram.
Fino a pochi anni fa la ricerca di capi vintage era raccontata come un’avventura archeologica degna di un film di Indiana Jones: infilare le mani dentro relle imbottite di ogni tipo di capo (e macchia) rendeva la scoperta di un blazer 100% lana ancora più preziosa. Oggi l’esperienza riflette la pulizia e la velocità che ci siamo abituati a pretendere da ogni tipo di applicazione. Siti e app di compravendita come Vinted funzionano meglio dell’app della mia banca. Sono puliti e intuitivi, il logo di Vestiaire Collective è così bello che potresti tatuartelo.
Proprio come sui social, ogni piattaforma ha le sue star che dettano legge in fatto di styling e gusto estetico: pesanti gilet di lana indossati da ragazze magre, blazer over indossati su pelle nuda, total look scattati con l’iPhone davanti allo specchio con il flash che sapientemente copre il viso. Se vuoi vendere su queste app devi improvvisarti fotografo e stylist, non basta appendere gli abiti alla gruccia e buttarli su uno sfondo neutro. E infatti eccomi qua, con lo scatolone con su scritto “da vendere” ancora pieno. Mentre scrivo questo pezzo ho fatto saltare la vendita di una mia gonna D&G perché non sono pronta a separarmene nonostante non la indossi da 8 anni.
Ho raccontato questo dramma personale a un’amica ed è rimasta molto delusa dal mio comportamento, mi ha spiegato che ora l’algoritmo dell’app mi catalogherà come poco affidabile e tenderà a non mostrarmi più a possibili acquirenti. Vorrei poter parlare con l’algoritmo, ritrovarmi faccia a faccia con lui come in una scena di una commedia romantica, urlare sotto la pioggia frasi ad effetto come “Ma non vedi che non so cosa voglio dalla vita!”. Sempre la stessa amica organizza shooting mensili dei capi che vuole vendere, post produce le foto e programma la pubblicazione a raffica su Vinted perché più carichi roba più diventi visibile.
Il suo commento non mi smuove molto, se avessi voluto impegnarmi così tanto ne avrei fatto un lavoro.
E infatti c’è chi ci ha pensato: ogni giorno il mio feed Instagram mi propone video di ragazze che, tra un balletto e l’altro in stile stacchetto delle veline, mi spiegano i segreti per comprare vintage online facendo grandi affari. Altre volte sono reel di queste muse moderne che ricreano outfit iconici di personaggi televisivi con capi di seconda mano.
Cecilia Cottafavi, è una di queste ragazze. Classe 1997, così appassionata di vintage da scriverci un libro intitolato “A qualcuno piace vintage”, su Instagram con il nome di @maert.ens propone anche dei tour per negozi vintage e mercatini nascosti. Veste quasi esclusivamente vintage, l’ho vista muoversi sicura e silenziosa all’interno di Sous Vintage, il negozio in zona Navigli dove abbiamo scattato le foto per questo articolo, e le ho domandato se ogni volta sa già cosa cercare: “Ho una wish list sempre pronta nelle note del telefono, ma comprare vintage vuol dire essere paziente e fare tanta ricerca, non sempre si trova subito quello che si vuole. Siccome passo così tanto tempo a contatto con questo mondo ho creato anche una seconda lista con tutte le richieste dei miei amici e dei miei follower, per aiutare chi non ha tempo di cercare”. Anche con lei torno sul tema dell’estetica vintage che funziona oggi, “Questa estate tutte le ragazze cercavano contemporaneamente camicie da notte da utilizzare come slip dress e camicie classiche oversize, con l’arrivo della stagione fredda sono invece sono tutti impazziti per i trench da legare stretti in vita e ancora di più per i Barbour”. Mi chiedo dov’ero io questa estate, mentre le altre cercavano di assomigliare alla Kate Moss di metà anni Novanta io decidevo di seguire la mia aesthetic crush per il personaggio di Sayid Jarrah della serie Lost.
Con il vintage non ho la pazienza di Cecilia, ma seguo molti profili che vendono direttamente su Instagram, sono sempre gestiti da millennials che hanno imparato la più grande delle lezioni del vangelo secondo Supreme: la scarsità. Non è tanto quello che vendi, basta che ce ne sia poco. Dopo aver mostrato la selezione dei loro tesori con una una serie di stories girate con il favore della luce calda del tramonto, la reale vendita viene aperta solo 24 ore dopo. Chi prima arriva, meglio compra. Se ci chiamate sesso debole è perché non vi siete mai imbattuti nello scambio di commenti sotto un post che annuncia la vendita di alcuni Levi’s 501 originali. È così che mi immagino l’inferno, pieno di ragazze che pretendono di sapere se un iPhone 11 entra nella tasca posteriore del pantalone.
Per carità, non che la vita sulle app dove vendere usato sia più semplice, ci sono persone capaci di augurarti la morte solo perché non hai intenzione di applicare uno sconto su una borsa di lusso, poi vai sulla loro bacheca e vendono giacche Zara 100% poliestere a 75 euro. Ma forse è anche questo il futuro che ci attende, i nostri figli pubblicheranno dei reel indossando capi fast fashion considerati vintage? L’ho chiesto direttamente ai ragazzi di Sous Vintage e mi hanno spiegato che per loro è confortante sapere che i capi fast fashion vengono rimessi in circolo e non buttati. Ma guai a trovarli in negozio “Un vintage come si deve non dovrebbe proporli!”.
Indossare vintage oggi è posizionante anche per le celebs: Rihanna, Olivia Rodrigo e Kim Kardashian lavorano spesso con gli archivi delle maison storiche. È un gioco per salire di livello nella complicata arrampicata verso il ruolo di fashion icon, ma è anche un modo per comunicare di essere dalla parte dei giusti. Che non si dica che le star non sono preoccupate quanto noi per il pianeta, semplicemente il loro modo di protestare è prendere in prestito un abito dall’archivio di Versace.
Ne ho parlato con Simone Furlan, art director e personal stylist che collabora con molti nomi della scena musicale italiana come Madame, Margherita Vicario, Mara Sattei. “Riconosco sempre una certa profondità quando qualcuno sceglie di utilizzare un look vintage… Siamo tutti un po’ troppo schiavi dell’hype, perché allora non discostarsi e uscire a sorpresa con un look d’archivio? È quello che ho fatto con Hell Raton a X Factor, una puntata sfoggiava un look preso da una nuova collezione, quella dopo un total look selezionato dall’archivio di JW Anderson”.
Noi con i maglioni tirolesi comprati alla bancarella vintage del mercato di quartiere, le star in Versace, ma anche all’ultimo piano dei bei palazzi dove si riuniscono i consigli di amministrazione dei gruppi del lusso non sono scemi. Etsy, e-commerce statunitense dedicato all’artigianato (un posto dov’è possibile acquistare un corsetto su misura ricavato dalla stoffa del divano o un furby personalizzato fino al limite dell’inquietante) ha da poco comprato Depop, l’app di compravendita made in Italy.
Il gruppo Kering ha investito nel francese Vestiaire Collective, Valentino ha lanciato un nuovo servizio che tanto ricorda il mercato dell’usato automobilistico: puoi far ritirare il tuo vecchio Valentino in cambio di un credito da spendere sulla nuova collezione. Infine Gucci, la cui estetica di maledetta nostalgia ci incanta da anni, si aggiunge alla lista dei brand che hanno annunciato una collaborazione proprio con The RealReal, il portale americano specializzato nella vendita e nell’acquisto di beni di lusso di seconda mano.
Ma se il vintage è la risposta a tutti i nostri problemi, perché gli armadi dei nostri genitori non ci forniscono tutti i capi di cui abbiamo bisogno? Se non il benessere, dov’è tutto il vintage che ci avete promesso?
Ho provato a rispondere a questa domanda già tanti anni fa, quando al liceo mi ero ripromessa che non sarei mai stata come loro, quelli con i jeans della Richmond. Avvicinatevi bambini, la nonna sta per raccontarvi dei magnifici anni 2000 quando non esisteva lo shopping online e per essere alla moda dovevi spendere i veri soldi nelle vere boutique di provincia, quelle dove si va il sabato con mamma e papà. Ad alcuni acquisti ho ceduto anche io, comprare il giubbino imbottito Woolrich era il prezzo più alto che ero disposta a pagare per farmi accettare dalla tribù che comandava la scuola. (Parliamo di una giacca che per anni è stata il simbolo del tamarro del Nord Italia, ma sono certa che con un buon lavoro di styling potrei indossarla anche oggi). Chiedere quell’investimento ai miei genitori mi è costato così tanto sul piano emotivo che ricordo di aver scritto il prezzo su un foglio di carta e di averlo appeso al muro sopra la scrivania della mia cameretta.
Quando ho capito che l’acquisto non aveva minimamente cambiato le sorti della mia vita sociale, ho deciso di catalogarmi come alternativa, un’etichetta sotto cui si potevano raggruppare tutti quelli che rifiutavano il modello del fighetto vincente: i punkabbestia, i comunisti con la maglia degli Ska-P, le ragazze che avevano scoperto Avril Lavigne e ovviamente gli sfigati con la tuta. Il mercato dell’usato richiedeva pochi soldi e tanta fantasia, esattamente il contrario del modello commerciale di successo del tempo.
Ho comprato borse di coccodrillo che ho consumato aprendo e chiudendo in cerca di sigarette, maglioni con maniche a sbuffo e scarpe décolleté che si sono rotte dopo una sola camminata alle Colonne e con mia grossa sorpresa direi! Citando una puntata di “Una mamma per amica” – “Certo, erano del 1943, ma io le ho comprate solo questo martedì”. Ho speso i miei soldi in cerca del mio stile e della mia identità fino a quando ho pensato la più banale delle idee banali “I miei genitori sono vecchi quindi sono vintage, possibile che non ci sia niente di buono nei loro armadi?”. Mi sono fiondata nei loro armadi in cerca dei vestiti delle persone che erano e non di quello che rappresentavano in quel momento.
I primi ricordi di famiglia che ho distrutto con la mia voglia di non essere come gli altri risalgono al giorno del loro matrimonio: le scarpe bianche di pelle di mia mamma e la camicia di Yves Saint Laurent di mio padre che – ops – ho macchiato di vino. Quella volta sono caduta in un vortice di sensi di colpa, come ho potuto macchiare con del vino scadente la camicia più bella e importante dell’armadio di mio padre? Ho forse messo a repentaglio il matrimonio dei miei genitori? Ancora peggio, è davvero la camicia più importante dell’armadio di mio padre? Chi è mio padre? Quel giorno ho imparato che non è possibile indossare capi dall’armadio dei propri genitori senza portare i nostri genitori con noi. A intrappolarci non è tanto il valore reale del capo quanto quello emotivo, i loro abiti hanno una storia che è impossibile ignorare e a volte un figlio deve poter ignorare il passato per costruire il proprio futuro. I capi di seconda mano appartenuti a sconosciuti ci permettono di far esplodere la nostra fantasia, possiamo chiederci chi lo ha indossato, che vita faceva, ma soprattutto di immaginare chi saremo noi indossandolo.
Cecilia non teme l’identificazione con i propri genitori come la temo io. Il capo a cui tiene tantissimo è un gilet sartoriale color panna in seta e pizzo macramè che faceva parte del completo da sposa di sua mamma. Anche Simone mi ha risposto che indossa spesso un cappotto Giorgio Armani appartenuto al padre, “Mi sa di Milano, appena lo metto mi fa sentire adulto. Sicuramente per come è fatto ma anche perché lo ha indossato per anni mio papà”. Riconosco qualcosa di familiare nelle parole di Simone, quel sentirsi davvero adulti solo quando si entra nei capi dei propri genitori, come se il loro fosse l’involucro dell’adulto perfetto e noi dovessimo passare la vita a crescere, espanderci per riempirlo perfettamente.
Secondo i proprietari di Sous Vintage tutti sono in cerca dei grandi classici, il trench, il cappotto, la giacca in pelle, il completo sartoriale… È evidente che la maggior parte di noi è in cerca dell’adulto che non è, quello che a 30 anni poteva comprarsi capi intramontabili tipo un cappotto di Max Mara o un completo fatto su misura, sposarsi, comprare casa e avere dei figli. Rovistiamo nell’armadio dei nostri genitori non per conoscere chi erano da giovani, ma per portargli via quel minimo di benessere che possiamo ereditare. Tra i tanti capi che stiamo rubando ai nostri genitori, ce n’è uno proprio di cui non ne vogliamo più sapere “Il 90% della gente vuole sbarazzarsi della famigerata e temutissima pelliccia della nonna”.
In “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino c’è una scena che racchiude perfettamente cosa ha significato possedere una pelliccia negli anni Ottanta: in un’afosa giornata estiva la signora Gentile pranza all’aperto con tutta la famiglia indossando la lunga e scura pelliccia perché deve ricordare a tutti che lei ce l’ha fatta. A quanto pare la signora Gentile e le nostre madri non sono poi così lontane dal modello del rapper arricchito anni Novanta, appena hanno potuto hanno investito in quell’oggetto che – dalla Brianza a Brooklyn – gridava al mondo che eri riuscito a risalire la scala sociale fino al più comodo e morbido dei piani. Mi chiedo se i figli di Puff Daddy abbiano regalato tutte le pellicce del padre, perché le figlie delle mamme italiane non hanno più il coraggio di indossarle. In realtà il problema non è la mancanza di coraggio, ma dover spiegare ogni volta che è un’eredità di famiglia, che è peggio comprarne una finta che, sì, sarà anche vegan ma è di plastica.
Nell’armadio dei nostri genitori si nasconde la storia intesa come tempo che passa, soltanto che non sempre le storie personali sono incollate al tempo come in un libro del liceo. Non sono come i tronchi degli alberi dove è possibile passare il dito su ogni anno vissuto. Come una pessima maga che si muove per tentativi molto generici posso dire che se hai trent’anni probabilmente in cantina potresti ritrovare un montone, una giacca di pelle, un costume senza lacci di quando mamma era ragazza. Qualcuno di voi è così giovane da aver ereditato pantaloni a vita bassa anni Novanta, sono certa – davvero – che da qualche parte esista quella favolosa nonna che possiede un tailleur di Chanel, ma sono solo dei puntini rossi nella storia di ognuno di loro, come il mitico Woolrich nella mia.
Esiste un guardaroba generazionale, ma è sempre influenzato da variabili personali come il cosa ci piace e cosa possiamo permetterci. Sempre secondo Simone questo esercizio di rubare qualcosa dagli armadi dei nostri genitori necessita di un certo rigore, “bisogna avere la volontà di ridare un senso a pezzi che non avremmo mai indossato finora”. Io non so se ho tutta questa volontà, al momento mi vedo bene nei gioielli di mia madre e nella giacca di pelle di mio padre.
Potete fare come me, decidere di avere un ruolo attivo in questa eredità prendendovene cura, sistemando le chiusure in oro delle collane e portando le camicie in seta e le giacche di pelle in lavanderia, ma non credo che le nostre cantine nascondano tutto il vintage di cui abbiamo bisogno.
Continueremo a cercarlo fuori dalle nostre case, come facciamo per tutto il resto.