Avete notato che ci vestiamo tutti bene? Non è sempre stato così. Sì, c’era un periodo in cui ci vestivamo tutti uguali — e forse in alcuni ambienti è ancora così —, uno in cui ci vestivamo tutti a caso, uno in cui l’iconicità di alcuni capi aveva raggiunto un livello talmente alto da essere diventati un pezzo scontato dell’armadio di ognuno (vedi le Dr.Martens o il piumino di The North Face), ma ora non è più così.
Sarà TikTok? Sì è lui. O al massimo Instagram. In ogni caso la creazione di uno spazio virtuale che espone visivamente riferimenti stilistici e consigli e dimostrazioni pratiche dell’arte di vestirsi ha allargato gli orizzonti e democratizzato il vestirsi bene. Con quale risultato? Un’influenza maggiore dello stile personale e dei singoli contro l’istituzione Moda (sì, con la maiuscola).
Forse siamo stati tutti cambiati il giorno in cui è diventato parte del sapere collettivo che esistono generazioni diverse che agiscono e reagiscono in modo diverso, che seguono (in linea generale) comportamenti di acquisti similari, hanno interessi comuni, precisi canali o metodi di informazione e soprattutto condividono le stesse piattaforme online. Il giorno in cui la Gen Z è stata definita è cambiato per sempre il modo di vestirci e incredibilmente siamo diventati tutti più bravi e così de botto senza senso, anche rilevanti.
In realtà il senso c’è: i fitcheck hanno dimostrato che anche fuori dal team creativo di una maison ci sono persone in grado di creare prodotti stilistici di valore e che riscuotono un largo appeal. Se in parte il “merito” è da cercare anche nella influencer culture, in realtà il nocciolo della questione sta nei creator di TikTok e nelle decine di trend che si accumulano sulla piattaforma. Se anche volessimo generalizzare e dividere la Gen Z tra i tipici partecipanti ai Fridays For Future e gli assidui acquirenti di Shein, scopriremmo che entrambi i gruppi acquistano similmente: non più influenzati dalla moda, ma dallo stile personale dei loro “simili”.
Secondo un survey condotto da Dazed l’88% dei giovani intervistati crede ancora nell’influenza delle sottoculture — non per come erano nella loro forma originale, ma per come sono percepite oggi attraverso micro-trend e core che ne risollevano alcuni aspetti — sottolineando il loro rifiuto della cultura mainstream, anche in fatto di moda.
L’equilibrio è stato quindi turbato. Dove prima i movimenti della moda erano regolati dai fenomeni di bubble up e trickle down — che indicano rispettivamente i moti di influenza dalla strada all’alta moda e viceversa — oggi l’effetto sembra essersi ridotto a quello di bubble up, dove l’influenza si muove dalla strada alla passerella. Per capirci: se fino alla scorsa stagione Miu Miu aveva dettato legge con il suo set di minigonna e maglione tagliato cropped inducendo tutti i brand minori a copiarlo e le persone ad imitare il look, nell’ultima collezione Primavera Estate 2024 Prada ha fatto sfilare una versione luxury della giacca Og Detroit prodotta da Carhartt dall’inizio del ‘900 e indossata da una porzione significativa di appartenenti alla Gen Z.
Con il crescente (e quasi ossessivo) bisogno dei brand di targetizzare, fidelizzare e vendere prodotti ad un pubblico sempre più giovane e sempre più Gen Z, l’attenzione dei “grandi” si è spostata sui “piccoli”, dalle “corporate” agli “individui”. I brand propongono al loro pubblico ideale quello che già una parte di quel pubblico indossa o vorrebbe indossare.
Tutto questo, unito alla facilità con cui l’algoritmo propone contenuti legati allo stile personale e a fenomeni mainstream come Barbie o il caso del Tinder Tabi Swiper, ha fatto arrivare la moda ad un pubblico che prima ne era totalmente indifferente. Mentre l’influenza dei singoli aumenta e l’effetto di bubble up si fa quindi sempre più pesante nel panorama generale, l’influenza dell’alta moda viene meno; il gusto dei singoli in fatto di moda diventa centrale anche per i brand lasciandoci in balia di in una collettiva ossessione per lo stile personale.