Dopo essersi approcciato allo streetwear unendo le forze con ALIFE nel 2009 per una mostra, ora il talento di Clayton Patterson ha attirato l’attenzione di un altro colosso della scena: Supreme. Un’unione tutt’altro che casuale, visto che stiamo parlando di due nomi onnipresenti nel plasmare e perpetuare l’affascinante scenario multiculturale della New York più underground.
Quando nel 1979 Clayton Patterson si trasferì dal Canada alla Grande Mela cominciò a immortalare le situazioni che avvenivano nel quartiere di Lower East Side in modo del tutto spontaneo, tra spacciatori, cortei femministi, poliziotti violenti, punk, comuni ragazzi, street artist, drag queen e gang. Quel sobborgo di Manhattan da sempre rappresenta un crocevia vivacissimo di etnie e sottoculture, dal momento in cui la maggior parte della popolazione di immigrati si concentrava lì mantenendo vive le proprie tradizioni, dagli ebrei agli afroamericani, fino agli italiani e agli ispanici.
Vicino a quel contesto, qualche decennio dopo, James Jebbia dava vita alla sua realtà, un negozio di skateboard diverso da tutti gli altri, sempre molto attento alla comunità circostante, destinato a diventare un brand che riscriverà le regole del fashion business e che recentemente ha deciso di situare il suo store principale nella Bowery Street, strada che delimita proprio il Lower East Side.
Col tempo, i video senza filtri e le fotografie schiette di Patterson assunsero un importante valore culturale, tanto da poterlo definire uno dei più importanti artisti e storici del folk, grazie a un immenso archivio che ha registrato il cambiamento della città negli anni.
Nel 1985 la sua carriera prende un’inaspettata piega, che senza alcuna aspettativa lo coinvolgerà nel mondo della moda. Mentre stava camminando vicino alla W 12th St., Patterson scoprì un piccolo negozietto che produceva cappellini da baseball, accanto a un altro che vendeva attrezzature sportive e patch di squadre. Così gli venne l’idea di far collaborare i due proprietari, Ben e Moe, commissionando loro un berretto che avesse più toppe con il simbolo dei Savage Skulls, una banda del Bronx, ma anche dei ricami. Da quel semplice lampo di genio, che per il periodo andava a costituire qualcosa di insolito, nacquero i cosiddetti Clayton Cap, ovvero i primi designer hat.
Ovviamente l’intenzione iniziale non era certo quella, ma soltanto creare un prodotto con uno stile originale, capace di rappresentare il folklore del luogo. Così, assieme alla sua compagna Elsa Rensaa, decise di ampliare il progetto e si mise a produrre in proprio cappellini customizzati con una vecchia macchina da cucire Bonnaz del 1880, sostenendo le proprie finanze e attirando ben presto l’attenzione di importanti magazine come Elle e GQ, oltre che personaggi del calibro di Mick Jagger e Gus Van Sant, i quali divennero clienti affezionati. Quell’attività rappresentava una vera e propria rivoluzione culturale e stilistica, perché, fino a quel momento, i cap venivano decorati esclusivamente sulla parte frontale e non su tutti i lati come fece Clayton. Oggi può sembrare scontato, ma allora non lo era affatto. Finalmente i cappellini in America non erano più associati soltanto a team di baseball come i New York Yankees o alla classe operaia, ma vennero trasformati in un oggetto prettamente estetico da esibire con creatività nel proprio look. Le tecniche e i modelli diventarono sempre più sofisticati ed elaborati, ma mantennero intatto il valore dell’artigianato, assumendo una significato concettuale sempre più vicino all’arte.
Tornando ai nostri tempi, il suo spirito continua vivere nella collaborazione con Supreme, che ha generato un’intera capsule collection già anticipata nel lookbook della collezione primavera/estate 2021. Al centro della linea troviamo giacche MA-1, camicie d’ispirazione workwear, jeans e ovviamente cappellini 5-Panel, il tutto caratterizzato da quei tanto amati ricami che ritraggono artwork d’archivio rivisitati con teschi e simboli tribali ispirati al mondo dei tatuaggi e dei graffiti.