Tommy Toxxic ci ha dimostrato che non fotte con questo Paese

In un periodo in cui il mercato musicale corre così veloce, per ascoltare l’album di Tommy Toxxic è necessario mettersi comodi e farsi trasportare dai pensieri altalenanti di un ragazzo contaminato dagli anni 2000. Internet, i videogiochi, le marche, la Disney, i Pokémon. “La Danza Delle Streghe” è un’esplosione di influenze che non si esaurisce in un ascolto, c’è bisogno di scavare per capire. 

Nei 15 brani Tommy racconta la sua storia, nascosta tra le righe dei testi e annegata nel flusso di coscienza che non smette di traboccare sulle produzioni. Una storia che, se ascoltate con attenzione, forse riuscirete a ricostruire.

Oggi questo disco ha portato all’attenzione di tutti l’identità tanto forte quanto criptica del giovane romano. Abbiamo parlato con lui di Goya, della grande Roma, del porto di Gioia Tauro e di Yung Lean.

Far uscire il disco in questo momento è stata una scelta facile o un po’ sofferta?

È stata un po’ sofferta, ma allo stesso tempo facile. Io registro tanto, quindi sono sempre nel mood di pubblicare album. Questo periodo quadrava con la visione di Tommy Toxxic, che non è Tommaso un tossico drogato (ride, ndr), bensì Tommy che vive in un mondo tossico e questo ne è la riprova.

I riferimenti che troviamo nel disco derivano da diversi mondi: la trap, la vecchia scuola, i videogiochi, i Pokémon. Cosa ti dà ispirazione?

Prendo molto il concetto della vaporwave, sai dove si vede tanto viola, tanta modernità, ma ogni tanto pure statue di marmo. Non posso scappare dal fatto che sono un ragazzo “del 2000”. Sono nato nel ’95 ma ho vissuto gli anni 2000 in pieno e faccio parte della generazione dell’Internet, della superficialità, del non fare i compiti e andare il giorno dopo con il riassunto di Wikipedia. Tutto questo fa parte di me, però allo stesso tempo mi sono reso conto di quanto in verità sia finto. Il concetto di uomo universale per me è molto importante, quello che può essere arte oggi giorno sono quei casi strani che tirano fuori tutto ciò che hanno assorbito nella loro vita.

E ciò che hai assorbito cosa può farci capire di te? 

Per me questo è un misto di emozioni che sto tirando fuori. Dico sempre che se non fossi stato all’ospedale probabilmente non sarei mai esploso nell’esprimermi in una certa maniera (parla della traccia “Ossa Rotte”, ndr). Per me è molto personale, ma in realtà mi ispiro a tutto, pure ai film della Disney, o al fatto che da piccolo mi faceva paura il Gobbo di Notre-Dame, i gargoyle. Poi col tempo ha iniziato ad affascinarmi ed appassionarmi.

Alla fine bisogna sempre tirare fuori un prodotto, ma non voglio che il mio sia un prodotto usa e getta, deve essere importante per la cultura del mondo di oggi.

Tommy Toxxic ad Outpump

Poi chiaramente sono all’inizio del percorso, per ora posso dirti che anni fa, quando ho visto per la prima volta quadri di Goya, mi si sono mosse dentro delle cose. Sentivo come se mentre dipingeva provava cose simili alle mie, come dire che la sofferenza ti porta ad esplodere e ognuno poi esplode in maniera propria.

A proposito di Goya ti faccio una domanda sulla cover, che penso sia ispirata proprio a un suo quadro. Cosa ci racconta del disco? Cosa c’è in comune fra l’opera di Goya e la tua?

È una copertina pesante, quasi coraggiosa. È molto espressiva, per me il quadro di Goya è un misto di filastrocche che ti raccontano da bambino, sai quella paura dell’uomo nero. Io sono molto sensibile, questo mi dicono, e quando ero piccolo e mi dicevano ding dong questo bimbo a chi lo dò, se lo tiene la befana, per me erano incubi che mi sono rimasti dentro per sempre. Chiaramente se non avessi fatto quell’incidente a livello carnale, pratico, non avrei mai iniziato a sfogarmi in questa maniera, però già prima avevo quella sorta di incubi.

Poi un giorno ho registrato una traccia che si chiamava “Danza Delle Streghe” e quella è stata la canzone che mi ha rappresentato di più, in cui esprimevo più paure, più angosce, concetti miei personali. E poi quando ho visto il quadro di Goya mi ha trasmesso le stesse cose, con quelle donne che offrono i propri bambini al caprone. È un po’ la rappresentazione del mio incubo.

Lo scorso anno hai fatto uscire un disco di 18 tracce completamente privo di collaborazioni, mentre questa volta hai variato sulle produzioni e sui feat che comunque sono sempre di famiglia. Come mai questo approccio diverso?

Oliver e Koki (fondatori della sua etichetta, Pluggers, ndr) mi dicevano che questo album doveva essere di 12 canzoni, perché l’importante non è il numero ma il delivery, come viene recepito dalle persone. Io però dal momento in cui faccio una canzone che ritengo importante a livello culturale e artistico, non voglio lasciarla fuori. Le cose devono uscire a tempo debito.

Per me il numero conta, pure Freddie Mercury voleva fare canzoni di un quarto d’ora e aveva ragione.

Tommy Toxxic ad Outpump

Queste sono più che altro due raccolte per far capire alle persone che cosa faccio, che cosa penso e come mi esprimo. “Ghost” aveva quattro pezzi su type beat e univa un po’ il periodo iniziale, in cui registravo da Carl Brave o in cameretta, e quello in cui ho conosciuto NIKENINJA. Sono tutte mie perché avevo bisogno di far vedere a tutti di che cosa ero capace, mi serviva il mio spazio per esprimermi e questo la gente lo ha apprezzato.

Ne “La Danza Delle Streghe” invece ho messo featuring di artisti che sono tutti amici miei e che stimo, poi non ti nascondo che, seguendo quello che mi dicono, sono uno che si esprime meglio quando sta da solo. Però mi piace collaborare e fare cose insieme.

Mi sembra di aver capito che anche Roma è un punto saldo in ciò che fai. Nonostante molti di voi abbiano condiviso gli stessi banchi al Virgilio, Roma permette di metabolizzare le cose a modo proprio ed è difficile sentire musica che esce fuori uguale.

Proprio adesso sono sul tetto di casa mia e vedo quasi tutta Roma. È difficile da spiegare, qua ai tempi delle repubbliche marinare i porti erano posti in cui c’era molta cultura, perché la prima globalizzazione è avvenuta proprio lì. Non dico che qua è dove è nato tutto, però si respira un’aria più “totale”, non so come dire. È grande Roma, si conoscono tante persone. Io nella mia infanzia ho frequentato più posti come punti di aggregazione, non è come stare in paese e dire sai ci si vede al bar, c’è tanto spazio per tutti.

A Roma ci sono stati molti fenomeni prima di noi, la Dark, la 126 si sono presi il loro dominio. È un bel cous cous, siamo tutti amici ma allo stesso tempo siamo pure nemici ogni tanto, dobbiamo accettare che ci sono altri e quindi tu devi andare più forte. Roma è angeli e demoni.

Veniamo da un’epoca in cui si segue l’esempio di chi ce l’ha fatta, se vogliamo ricollegarci a Goya, quello che servì a lui per ottenere riconoscenza fu proprio l’abbandono degli schemi. Quale diresti che è lo schema che hai dovuto rompere per trovare il tuo modo di fare musica?

Per me questa è una domanda vitale. Quando andavo alle medie, mentre i miei amici riuscivano ad andare bene a scuola perché arrivavano lì con la faccia da paraculo e la scampavano, io se dovevo studiare due pagine di scienze andava a finire che il pomeriggio piangevo sui libri. Perché c’erano i miei che mi dicevano dai succede questo e poi quello, come fai a non capirlo? E io invece niente, sui libri non ho mai imparato.

Poi però a un certo punto ho capito che dovevo abbandonare tutto, tutto ciò che avevo vissuto, il mio trascorso fino a quel momento e esprimermi tirando fuori emozioni che però, come dicevamo prima, devono essere mischiate con una coscienza, con dell’intelletto e del sapere. 

Lavoro molto a flusso di coscienza e provo a mischiare quello che vorrei con quello che ho subito. Dico ciò che non mi va bene, le cose che vorrei cambiare.

Tommy Toxxic ad Outpump

Sembra un paradosso che a scuola non riuscivano ad entrarti le cose in testa perché in realtà i tuoi brani esprimono molta cultura.

Si vede che ho assorbito. Magari la scuola ti fa pensare che non ci arrivi, mentre la vita è tutta una ricerca. Scoprendo la scrittura ho trovato un modo per tirare fuori tanto. Adesso sto provando ad unire i puntini, quando le persone ti scrivono grazie Tommy per quello che fai, mi aiuti per me è davvero un colpo al cuore e penso, ma in che modo li sto aiutando? Purtroppo da piccoli è tutto un incubo, capisci che intendo? Pensi di essere rovinato, di essere un mostro perché la tipa non ti vuole, ti fai mille pensieri.

A me piace questa cosa di aiutare, forse perché pure io cercavo quello da bambino, e alla fine mi ha aiutato Noyz Narcos.

Tommy Toxxic ad Outpump

Ascoltando il disco c’è una frase in particolare che mi ha colpito. In “Tiffany” dici “sai che non fotto con questo Paese, mi viene da alzare bandiera bianca”. Hai già perso le speranze per l’Italia?

Già (ride, ndr). Quella frase è ispirata alla barra di Young Thug in “Mamacita”, dice I don’t fuck with America e quando l’ho sentito la mia mente ha viaggiato: considerando tutto ciò che penso sull’Italia era perfetta.

È un po’ un Paese di Pulcinella questo, no? Alla gente piace tanto parlare, ma poi l’unica cosa che sanno fare bene è mangiare. Mi da un po’ fastidio questa ipocrisia, gli italiani sono i maggiori consumatori di cannabis al mondo, cosa vogliamo fare? Il porto di Gioia Tauro, si sa cosa succede lì, ma quand’è che cambierà qualcosa? Poi la burocrazia, ma che cos’è? Niente se non un ostacolo, addirittura in un momento come questo. E ancora le mafie, la mentalità brigante che è proprio nostra, non lo so, succederà pure tutto ovunque ma conoscendo gli italiani e la loro cultura certe volte mi viene proprio da dire che non fotto con questo Paese.

Mi sembra di capire quindi che punti oltreoceano.

Sono madrelingua inglese, ho fatto prima la scuola inglese che quella italiana e una parte della mia famiglia vive a Boston, quindi ci punto molto. Su YouTube sono stati pubblicati due miei pezzi in inglese, ma erano i primi esperimenti, adesso sto provando a registrare cose con un certo flow, melodia, e gradualmente le farò uscire. Chiaramente poi le cose vanno fatte con criterio, in America il mercato è strasaturo, però i casi eccezionali ci sono sempre, vedi Yung Lean, una volta a Londra l’ho anche conosciuto.

Sul serio? Come è successo?

Sì, però prima che diventasse famoso. Quando ho studiato gli ultimi anni in Inghilterra, condividevo una casa all’interno del collegio con un ragazzo, Martin, che aveva vissuto in Vietnam per alcuni anni e lì era stato con Jonatan (Yung Lean, ndr). È una storia fantastica, ogni volta che entravo in camera sua trovavo le sue foto con questo biondino, ma ancora prima che sentissi le sue canzoni, sarà stato 2014/15. Circa un anno dopo è venuto a trovarlo a Londra e mi sono trovato in un pub con lui e i suoi due produttori. Sono diversi, pure loro hanno questo concetto di flusso di coscienza. 

Sarà una bella sfida sfondare in America. Devi riuscire a entrare nei cuori delle persone che ascoltano solo roba in inglese e non è facilissimo. È tutto un lavoro di scrittura, bisognerà provare a portare il Rinascimento italiano in qualche modo.

Parlando di opere incomprese o fraintese. Penso a “I Capricci” di Goya. A quale dei brani del disco daresti il titolo di opera che forse non verrà compresa?

Penso di aver fatto un buon lavoro con questo album, per cui mi è difficile dirlo. Forse sarebbe più semplice dire “Ossa Rotte”, che è un po’ la “Morto A Dicembre” di questo disco, perché è martellante, un po’ depressa. È difficile da dire perché è un po’ un macello di emozioni, forse ti direi anche “Voci”, perché comunque è uno dei brani più personali del disco.