Una “città da quindici minuti” è davvero possibile?

La nostra accettazione delle disfunzioni della città moderna è arrivata all’apice. Dobbiamo cambiare tutto. Dobbiamo cambiare per amore della giustizia, per il nostro benessere e per il clima. Per troppo tempo quelli di noi che vivono in città, grandi e piccole, hanno accettato l’inaccettabile“.

Con queste parole Carlos Moreno, urbanista franco-colombiano di fama internazionale e docente all’università Sorbona di Parigi, lanciava a più riprese il progetto della cosiddetta “città dei quindici minuti”. Una città pensata per avere, in uno spazio ridotto, ogni funzione utile per la vita delle persone. 

Ufficialmente presentato nel 2016, il modello stenta a diffondersi per diversi anni, rischiando seriamente di rimanere confinato nelle aule universitarie della Sorbona di Parigi come un progetto accademico fra tanti. Poi, la nascita di nuove riflessioni urbane seguite alla pandemia, i dibattiti sulla sostenibilità del nostro stile di vita anche nei contesti urbani e l’affascinante capacità comunicativa del modello-brand, hanno reso l’idea molto popolare, tanto da tramutarla in uno dei principali prototipi di riferimento nelle campagne elettorali locali, nonché strumento teorico alla base di molte iniziative e programmi politici.

L’idea di una città dei quindici minuti prende ispirazione dal concetto di “neighborhood unit”, tradotto “unità di vicinato”, un modello urbanistico di autosufficienza dei quartieri elaborato per la prima volta nel 1923 in un concorso nazionale di architettura a Chicago.

Pur non trattandosi dunque di un’idea nuova, negli ultimi tre anni in tanti ne hanno sentito parlare: la città dei quindici minuti si è trasformata in un movimento globale diffuso, un paradigma assunto da molti urbanisti e amministratori locali per ripensare la città contemporanea in un’ottica più vivibile e meno impattante per l’ambiente, migliorando la qualità della vita urbana stessa, nonché la sua sostenibilità. Per farlo, utilizza lo strumento della pianificazione urbanistica, cioè di un disegno della città che possa favorire il nuovo sistema, spaziando da questioni prettamente urbanistiche ad aspetti socio-economici, richiamando quattro principi teorici base:

1) ecologia, per una città verde e sostenibile;
2) prossimità, per vivere a ridotta distanza da tutto ciò che si rende necessario;
3) solidarietà, per creare legami fra le persone;
4) partecipazione, per coinvolgere attivamente i cittadini delle città.

Città meno inquinate, più vivibili e più partecipate. Una tentativo di far convergere la vita in uno spazio a misura d’uomo, favorendo la nascita di territori urbani rispettosi del tempo dei cittadini, dove il raggio simbolico dei quindici minuti, inteso come tempo di percorrenza a piedi o attraverso mobilità ciclistica, fa si che la stima spaziale in cui è necessario muoversi sia di circa 1 km quadrato.

A ben pensarci, il principio della densità urbanistica al centro del progetto, risulta antitetico rispetto a come molte città, italiane ma non solo, si sono evolute negli ultimi cent’anni. Nel corso del ‘900, a partire della seconda rivoluzione industriale, la crescita urbana ha seguito un principio detto di “zoonificazione”, originatosi a partire dal paradigma architettonico della rinomata “Carta di Atene”, proposta da Le Corbusier nel 1933. Tale documento urbanistico-architettonico teorizzava una suddivisione molto rigida delle aree urbane, ognuna delle quali con una precisa funzione: un’area in cui lavorare e produrre, una pensata per viverci, un’altra ancora dove svagarsi.

Con il passar del tempo questo modello ha però dimostrato grossi limiti, sempre più evidenti nelle disuguaglianze sociali che dominano la modernità. Inoltre, una tale disposizione urbana ha contribuito in maniera significativa alla nascita di città e metropoli squilibrate, dove è diventato del tutto normale avere un’auto a testa o trascorrere un’ora o due negli ingorghi mattutini del traffico.

Il progetto di Moreno, al contrario, aspira a sfruttare ogni metro quadrato già costruito, che deve obbligatoriamente essere destinato a molteplici utilizzi. Questo significherebbe ottimizzare al massimo ciò che è già stato edificato, senza consumare ulteriore suolo, garantendo dunque un sistema più ecologico e sostenibile, anche per il pianeta. In una visione tale il traffico automobilistico, così come le emissioni di gas serra da quest’ultimo provocate, verrebbe drasticamente ridotto, a favore di una mobilità più lenta, a piedi o in bicicletta, oppure attraverso un ampio utilizzo dei mezzi pubblici.

Il laboratorio sperimentale della città dei quindici minuti è stata Parigi, città in cui vive e lavora lo stesso Carlos Moreno. Nel 2020 la sindaca Anne Hidalgo incluse l’idea di Moreno nel suo programma per la rielezione, in perfetta sintonia con la voglia di revisione profonda di valori e priorità che si stava diffondendo fra i cittadini a seguito dei mesi di reclusione imposti dal lockdown.

A Parigi, ormai da diversi anni, si insegue il cosiddetto “big bang della prossimità”, un paradigma concreto che ha fino ad ora incluso, ad esempio, un massiccio decentramento urbano, un significativo aumento di piste ciclabili e aree pedonali, la pedonalizzazione e la messa in sicurezza delle vie delle scuole pubbliche, o la riconversione degli stessi edifici a centri culturali negli orari in cui non vi è lezione. Sono state poi create strutture sanitarie in tutti i 20 arrondissement municipali parigini, oltre al facilitare l’apertura di piccoli negozi di beni essenziali, rendendo così appetibili anche quelle aree della città prima meno calcolate. La sindaca parigina ha addirittura nominato un commissario speciale al fine di raggiungere l’obiettivo prefissato: rendere la capitale francese città al 100% ciclabile entro il 2026.

Città dei 15 minuti, Parigi
La proposta di “Ville du quarto d’heure” da parte del sindaco di Parigi, Anne Hidalgo
(fonte: annehidalgo2020.com)

A Parigi ha fatto seguito Barcellona, con il suo piano urbanistico delle “superilles“, termine catalano che significa “superblocchi”. Si tratta di aree urbane dalla forma quadrata e dalla dimensione 400 metri per lato, all’interno delle quali possono entrare solo i veicoli dei residenti e dove il limite orario consentito è di 10 km/h.

La circolazione delle auto è permessa quasi esclusivamente lungo il perimetro del blocco, mentre all’interno la priorità è data ad altre forme di mobilità e agli spazi verdi pubblici. A Barcellona l’amministrazione comunale destina poi da anni una cospicua quota delle proprie casse in investimenti a favore del traporto pubblico, per l’allacciamento fra i diversi blocchi. Se la città riuscisse a creare tutti i 503 blocchi previsti dal piano proposto dalla sindaca catalana Ada Colau, si stima che si potrebbero sottrarre alle macchine circa 30mila metri quadrati di spazio e ridurre così le emissioni di CO2 di oltre il 40%.

All’interno della rete C40 – una rete globale di 100 sindaci delle principali città del mondo uniti per affrontare la crisi climatica – sono circa venti le metropoli che stanno sperimentando, in varie forme, la città da 15 minuti. Fra le altre Copenaghen in Danimarca, Utrecht in Olanda, Buenos Aires in Argentina, Portland e Salt Lake City, due importanti casi-studio negli Stati Uniti, Melbourne in Australia, Busan in Sud Corea, Singapore, oltre che Milano, con l’implementazione di molteplici progetti intitolati “Piazze Aperte” e prossimamente Roma. Ciò che unisce le amministrazioni di queste grandi città è l’intento di trasformare le metropoli da causa primaria del cambiamento climatico a strumento, insieme ad altri, per combatterlo.

L’affascinante idea, narrata con toni utopici e rivoluzionari da chi la sposa, presenta nella pratica una serie di sfide e ostacoli. Alcuni burocratici, altri prettamente urbanistici. Un rischio, di cui si parla spesso in relazione alla città da quindici minuti, riguarda il fatto che il modello possa accentuare le disuguaglianze invece che ridurle, in un’ottica dove i quartieri ai margini potrebbero restare ancora più esclusi dal resto della città. Oppure ancora, che l’eccessiva chiusura a riccio del modello possa impedire le contaminazioni sociali, il dinamismo economico o l’innovazione.

La sfida forse più rilevante rimane però quella culturale: realizzare città da quindici minuti all’interno di società moderne improntata su una forte cultura dell’automobile, richiederebbe un cambiamento importante nel comportamento e nello stile di vita delle persone, a cui verrebbe chiesto di abbracciare una vita più locale e partecipata, mettendo da parte la mobilità privata e le sue comodità. 

Nonostante ciò, con la popolazione mondiale che si concentra sempre di più nelle metropoli, la necessità di una nuova progettazione cittadina sembra inderogabile: l’attuale espansione urbana non potrà gestire l’arrivo di altre 2,5 miliardi di persone previsto entro il 2050. I vecchi modelli sono insostenibili sul piano umano, sociale, ambientale. Per necessità dunque, ancor prima che per scelta, siamo costretti a rivoluzionare l’assetto delle nostre città; lockdown ed emergenza climatica sembrano aver fatto capire a molti l’urgenza di un cambiamento.

In un simil contesto, dove il coinvolgimento e la partecipazione attiva dei cittadini si è rivelato fondamentale, le città dei quindici minuti e le idee di Carlos Moreno potrebbero rivoluzione il modello di Le Corbusier e della Carta di Atene, unendo, urbanisticamente parlando, l’abitazione con il lavoro, con l’approvvigionamento, con l’istruzione, con la cultura e lo svago, mescolando categorie sociali e funzionalità. L’obiettivo che si vuole raggiungere riguarda l’autosufficienza delle singole parti urbane, recuperando, anche nelle metropoli, quella dimensione di prossimità, spaziale ma anche relazionale e quindi interpersonale, tipica del borgo, del rione, del quartiere.

Distanze ridotte per spostamenti ridotti: una trasformazione inclusiva che, viaggiando nella direzione opposta all’urbanistica moderna, mette al centro le persone e i loro bisogni.