Ciro si presenta sul set al contempo sereno e impostato, si accomoda, mette da parte il telefono ed è pronto a parlare. Ci mettiamo poco a capire uno dei punti fondamentali della sua persona: quando decide di fare una cosa, vuole farla bene. È venuto da solo, la sua Jaguar parcheggiata fuori diventerà oggetto del nostro shooting e la LV bag che si è portato dietro è piena di vestiti che raccontano l’essenza del rap anni ’90. Ci tiene che tutto sia reale, vero, sentito, non ha intenzione di mettersi in posa per sembrare qualcun altro. Vuole essere Ciro Buccolieri, l’italian hustler vissuto col mito di Biggs Burke e delle etichette indipendenti che da Brooklyn a Los Angeles hanno dettato le regole del rap game, lasciando un’eredità ancora viva e sentita ai giorni nostri. In un certo senso, quello che Thaurus sta facendo in Italia.
Il concetto di legacy è un tema che a Ciro sta molto a cuore e lo farà presente più volte durante la nostra chiacchierata, «ci credo molto, è una delle cose per cui faccio questo lavoro», afferma, «penso sia importante lasciare qualcosa che possa ispirare le generazioni future, non soltanto in termini di dischi, di musica, ma anche in termini di eredità. Se noi siamo qua è perché della gente prima di noi ha rotto dei muri, ha fatto un certo tipo di lavoro, ha sudato, lottato e combattuto per far sì che tutto il movimento avesse importanza e rilevanza. Noi – con Thaurus – abbiamo fatto il nostro nel nostro periodo, e lasciare un’eredità in quello che fai è fondamentale, perché nella vita non ti fanno crescere soltanto le persone con cui hai un contatto diretto, ma anche quelle che non hai mai conosciuto». Ciro, dalla sua, si riferisce a Roc Nation, Rap-A-Lot, No Limit, Death Row, Bad Boy, tutte realtà che ritroviamo fedelmente impresse nel suo abbigliamento e che in un certo senso lo hanno salvato, perché «avere una passione nella vita ti salva, così come avere qualcuno, un punto di riferimento, che ha detto qualcosa, quella cosa, che ti ha colpito in positivo».
Avere un punto di riferimento è fondamentale, ed è quello che Thaurus, da 8 anni, cerca di essere. Figlia dell’esperienza di Shablo, Mario – colui che dette vita al 2theBeat – e dello stesso Ciro, Thaurus si affacciava sul mercato discografico nel 2013, mostrandosi come una realtà capace di curare a 360 le sfaccettature del lavoro di un artista. Management, booking, discografia, publishing, una cosa che in Italia al tempo non era affatto lo standard, «abbiamo sempre avuto un occhio su tutto il business che riguarda l’artista, volevamo creare una casa dove l’artista potesse entrare e trovare persone che seguissero tutti i suoi interessi. Abbiamo sempre cercato di collaborare, creare partnership, mai di chiuderci. Facciamo tutto noi, ma siamo aperti a lavorare con player più grossi che ci danno una mano a risolvere questioni che da soli non potremmo concludere». Non tutti, infatti, hanno le stesse esigenze, «è importante capire che uno come Sfera Ebbasta ha bisogno di una discografica che lo accompagni e che gli permetta di fare tutto ciò che ha fatto a livello internazionale, ma ci sono anche artisti che da indipendenti funzionano benissimo». Costruire intorno all’artista, capire il suo mondo e trattarlo come individuo sono alcuni dei concetti che nel 2013 mancavano. Al tempo il mercato del rap in Italia non era certo quello di oggi, erano pochissime le agenzie che lo gestivano con la giusta cura ed è qui che Thaurus si è inserita, in uno spazio bianco che si è presto colorato di numerose realtà. «Perché abbiamo questa identità?», interviene Ciro, «io credo perché siamo gente realmente innamorata, appassionata e dedita a questo specifico genere. Non ci mettiamo a fare cose che non ci appartengono, l’opportunità di allargare il campo c’è stata, abbiamo preso qualche artista più ibrido, ma che avesse sempre le radici nell’urban, nella black music». Ed è proprio questa coerenza di stile che ad oggi permette a Thaurus di configurarsi come valore aggiunto dietro al nome di un artista.
Non credo sia un problema di major, non major, grandi realtà o piccole, credo sia un problema di persone. Non è la maglia che fa la squadra, è il giocatore.
Ciro Buccolieri ad Outpump
I successi di Thaurus, ultimamente, arrivano a pioggia. Solo due settimane fa Ciro si congratulava per i loro 10 artisti entrati nella Top 200 di Spotify con 25 brani, numeri che ad oggi possono sembrare scontati, ma che nel 2013 difficilmente si riuscivano a immaginare. Sfera Ebbasta, Guè Pequeno, Noyz Narcos, Rkomi, Ernia, FSK, Night Skinny, TY1, sono solo alcuni dei nomi che Thaurus porta avanti sul palmo della mano. «Avere a che fare con tanti artisti è difficilissimo, ognuno ha il suo carattere, la sua testa, il suo modo di vedere la vita e non esiste una formula replicabile all’infinito», afferma, quello che va bene per uno probabilmente non va bene per l’altro, bisogna avere pazienza e capire cosa l’artista sta cercando. Ci spiega che «è importante disegnare il vestito giusto per quelle che sono le sue skills, le sue caratteristiche, ed è molto complesso», ma ci tiene a ricordare che «quando vuoi qualcosa devi avere anche le palle di pagare il prezzo che ci vuole per ottenerla», perché il vizio odierno è cercare il successo in maniera smodata, chiudendo un occhio sui sacrifici e le rinunce necessarie per raggiungerlo. «Se vuoi la Ferrari devi avere i soldi per mettere la benzina, altrimenti la tieni ferma in garage», ma seguendo la logica del nostro discorso, tutto torna, perché alle volte sembra più importante farle vedere le cose, piuttosto che farle davvero. «Sai, adesso i ragazzini si approcciano a questa merda per diventare famosi, ma non è mai la chiave. Un artista forte lo fa per un’esigenza comunicativa, perché lo farebbe comunque, poi diventa un lavoro e va rispettato come tale». E qui arriva il primo problema dei giovani artisti: capire che i soldi non sono gratis. «Il problema principale è che vogliono tutto subito, sono schiavi dei social network e schiavi di rappresentare anche quello che non hanno», ma spesso, ci spiega, «è meglio salire un gradino alla volta, perché se alzi troppo le aspettative e poi non reggi il confronto, ti schianti. Fare una hit può capitare a tutti, fare una carriera è un’altra cosa. Richiede talento, motivazione, disciplina, testa, fame, rinunce. È complesso». E da quel che abbiamo capito, è tutta una questione di mentalità, quella di cui Guè Pequeno parla nei suoi “Fastilife”. Se la vita veloce non fa per voi, non provate a rifarlo a casa.
Per capire la scuola da cui proviene Ciro Buccolieri, in effetti, ascoltare il disclaimer di “Fastlife 4” è un buon punto di partenza; la sua vita rispecchia alla perfezione una frase detta da Guè Pequeno in “Stile Originale – Fastlife”, «abbiamo provato a fare di tutto per vendere di tutto, e questo è il vero hip hop». Quando gliela diciamo sorride e annuisce, perché sa esattamente di cosa stiamo parlando. «Io sono figlio di una mentalità da hustler veramente, la maggior parte non si possono raccontare ma ne abbiamo fatte veramente di ogni (ride, ndr). Io banalmente volevo gli Evisu, volevo le giacche Pelle Pelle, e non c’erano. Dovevamo inventarci un mondo per farli. Andavamo ad Harlem o in giro per l’Europa, abbiamo aperto negozi di vestiti, organizzato serate. Ci siamo inventati una vita. Volevi l’orologio? Ok, però guadagnavi 10, 3 li spendevi e 7 li mettevi via, perché poi aprivi un negozio. C’era la mentalità di fare business e di crescere».
Adesso non c’è più il bisogno di “fare di tutto per vendere di tutto”, adesso c’è un mercato, il rap game. Un’industria incredibilmente florida che ha spinto Thaurus – come realtà indipendente – a mettere piede fuori dall’Italia e ad affacciarsi in quel paese dove tutto è nato. «Quando è uscita, “PANETTE” ha settato uno status» afferma Ciro parlando di Sfera Ebbasta «la prima volta che l’ho sentita ho detto “questo ragazzo ha le carte in regola per diventare internazionale” perché è una roba troppo più forte del resto, più catchy, il sound era incredibile, Charlie aveva fatto un lavoro fortissimo» e oggi, mentre parliamo, sappiamo che quelle parole sono più che mai veritiere. “FAMOSO”, l’ultimo disco di Sfera, ha posizionato tutti i brani nella Top 150 Global di Spotify e la sua promozione non si è certo limitata all’Italia. Se andiamo a dare uno sguardo più interno, dietro le quinte, scopriamo però che quando si parla non più di Italia, ma di mondo, le cose cambiano incredibilmente. I budget in America sono tarati su scala mondiale, quindi completamente diversi dai nostri, così come i cachet dei concerti. I livelli di professionalità, figli delle economie, sono molto più alti dei nostri. «In Italia abbiamo gente molto capace e molto competente e che anzi ha dovuto fare di necessità virtù, ha dovuto competere, combattere senza i carri armati, ma con la fionda, e ha dovuto fare le guerre lo stesso, sviluppando una serie di skills che magari laggiù non sono neanche necessarie» afferma Ciro, per poi continuare, «perché sai, molte volte l’evoluzione è anche figlia della situazione di difficoltà, di disagio, della mancanza di mezzi». È a tutti gli effetti una palestra. «Confrontarsi con l’estero è molto interessante, da una parte stimola e ti dà la voglia di arrivare a fare quello che hanno fatto loro, però dall’altra, se mi posso permettere, ti consola, perché ti rendi conto che ti confronti con gente che non è così tanto più skillata di te, semplicemente è in un contesto migliore del tuo. Più che migliore, più ricettivo», conclude.
Ciro è una persona consapevole e positiva, molto legata e riconoscente a tutto quello che l’ha reso ciò che è oggi – non a caso si è presentato all’intervista con una giacca in pelle firmata Avirex e una maglietta celebrativa del ritorno dei The Firm nell’ultimo album di Nas, “King’s Disease”, quello che gli ha permesso di ottenere il primo Grammy della sua carriera. Un riconoscimento, quello di Nas, che ci ha ricordato che il successo nella vita vera è tutt’altra cosa rispetto a quello che gli altri ci assegnano. «La mia personale idea di successo (quella slegata dai premi, dal posto in classifica e dall’artista stesso, ndr) è lasciare qualcosa che dia spunto ad altri per migliorarsi», una legacy, appunto, «è poter fare quello che mi piace per più tempo possibile». «Il lavoro che facciamo è un lavoro totalizzante, non ci sono sabati, non ci sono domeniche, non ci sono Natali. Lavori 18 ore al giorno ed è quello che vogliamo fare. Kobe Bryant diceva “la cosa che mi rende più felice al mondo è giocare a basket e voglio farlo quanto più tempo possibile”». Kobe è un altro dei suoi modelli a livello di mentalità, ci racconta di aver avuto la possibilità di conoscerlo a Milano e di non aver dimenticato la sua enorme disponibilità. «Vincere è una conseguenza dell’essere innamorato di quello che fai», ci dice, e forse è per questo che Ciro ha dalla sua una modesta tranquillità e certezza.
Quando gli chiediamo come si fa ad avere così tanto tutto sotto controllo, ci dice – citando Mario Andretti – che se hai tutto sotto controllo, vuol dire che non stai andando abbastanza veloce. «Non sempre quello che facciamo funziona», fa parte del gioco, d’altra parte il saper accettare un fallimento era proprio uno dei suoi 16 comandamenti. La miglior prospettiva – per inquadrare la situazione e colpire al centro – è quella che permette di capire qual è la zona di comfort dell’artista, ci spiega, e quanto uscire da questa zona di comfort gli fa bene. «Io però ritengo sempre una cosa: la carriera è la sua, l’ultima parola è la sua, su tutto. Nessuno di noi impone strategie, un gusto estetico, musicale. È il tuo disco, la tua faccia, la tua vita, la tua immagine, sono i tuoi sogni. Che si tratti di un ragazzino che vende dieci copie o del super big che ne vende 10 milioni, tu devi rispettare quello che fa, perché quella è tutta la sua vita. Per te che magari fai 50 progetti, potresti cadere facilmente nel cliché del dire “vabbè, tanto questo è piccolino”, non è così. Chiaramente vanno calibrate le risorse, il budget, il tempo rispetto a progetti più importanti che richiedono più sforzi e attenzione, però devi avere profondo rispetto di quello che fanno, e tante volte il rispetto è dire non ti posso firmare perché non ho tempo per seguirti, perché quella roba lì è la sua vita e tu la devi rispettare, è la sua arte. Lascia stare che a te poi può non convincere, è il suo modo di esprimersi e va rispettato». Ciro pesa molto le parole che dice, dietro le sue affermazioni c’è sempre una motivazione, non è uno dalla critica facile perché conosce il valore del lavoro e dell’individuo. «Purtroppo, in Italia viviamo in un momento storico particolare, siamo un po’ al mercato del pesce. C’è una caccia alla firma assoluta, qualunque ragazzino che esce ha già 10 proposte discografiche, ma credo che si tratti di una bolla, alla fine della fiera tanta gente tornerà a fare il proprio lavoro, perché non c’è posto per tutti. Bisogna premiare quando uno è forte, quando è valido, quando ha veramente qualcosa da dire».
Ciò che colpisce, a una figura come Ciro, è indubbiamente l’identità, sempre. «Non mi interessa firmare o avere a che fare con la copia della copia, anche se è forte e bravo, non mi stimola». Non ci sono requisiti, non esistono formule, e forse è proprio qui l’errore che spesso commettono i giovani artisti, guardare quello che fanno gli altri e cucirselo addosso a propria immagine e somiglianza. «La maggior parte dei ragazzini ha la stessa narrativa, ma io voglio sentire quello che è tuo. Se sei di un paesino di montagna, non mi parlare di palazzoni, parlami della tua realtà, della tua provincia. Il ghetto ha tante forme, ci sono tanti tipi di situazioni difficili» e ci porta l’esempio di Ernia, che pur essendo stato arrestato due volte, ha sempre avuto la cena sulla tavola, motivo per cui non ha mai raccontato ciò che non gli appartiene. D’altronde, come disse una volta Jay-Z: “io voglio vivere per sempre, per questo la mia musica si identifica con la verità”, e solo in questo modo si può pensare di ambire a lasciare una legacy.
Capire quale sarà il prossimo grande artista non è affatto semplice, soprattutto con il livello di saturazione che il mercato oggi ha raggiunto. Se nel ’92 Puff Daddy riusciva ad affermare – ascoltando solo la sua prima demo – che Biggie sarebbe diventato il rapper più forte di tutti tempi, adesso, nel 2021, sembra letteralmente impossibile. Ciro è uno molto di pancia su queste cose, «quello che mi fa saltare dalla sedia e che sento diverso, per me è figo», afferma. Ernia, ad esempio, in un momento in cui tutti seguivano una certa wave, «ha fatto un EP senza ritornelli, tutto rap, tutto conscious, e mi ha colpito un sacco»; se parliamo degli FSK, invece, «sono totalmente l’opposto, ma quando ho sentito “La Prova Del Cuoco” ho visto la loro identità; è il loro viaggio, è reale ed è fighissimo». Lo stesso è successo con Rkomi, «quando sentii per la prima volta “Dasein Sollen” di Mirko, era incredibile, unico, firmò con noi subito dopo». Alla fine, Ciro è dell’idea che se uno spacca, prima o poi qualcuno te lo dice. «Se sei in questo giro, non sono importanti i numeri, lo vieni sempre a sapere quando qualcuno sta facendo qualcosa di particolare».
Un passaparola figlio della particolare attenzione riservata al genere, un aspetto estremamente positivo quanto dannoso, alle volte, per l’arte stessa. «Quando sei primo in classifica, quando la tua faccia è sulle copertine, devi stare attento a quello che dici, perché è un attimo che ti si rigira contro», ma lo stato dell’arte un po’ ne risente, ci dice Ciro, «l’arte è il poter dire quello che vuoi, come vuoi», è la fotografia di un momento storico, è linguaggio di strada – il rap in particolare – e non può essere diverso da come parli. «L’arte non deve avere il problema di dare fastidio, di essere sgradita o di essere diseducativa, perché sennò tu la stai già impostando come un prodotto» ed è un prodotto importante, certo, ma che non deve pensare di dover educare, perché credere di avere una responsabilità sociale limita inevitabilmente la propria arte e brani come “Butterfly Knife” di Noyz e Chicoria – risalente al lontano 2005 – oggi non potrebbero esistere. «Sono il padre, la madre che devono occuparsi di educare il ragazzino, non la televisione, non la musica, non i quadri, non la moda. Perché se tuo figlio spaccia o va a rubare i motorini perché ha visto Gomorra, forse c’è qualcosa che non va in casa».
L’arte, secondo Ciro, deve essere libera, senza freni, non si può imporre né pianificare – «perché ci vuole anche il tempo di vivere, per poi poter raccontare» – ma sicuramente si può indirizzare per cambiarne le sorti. È così che ci siamo imbattuti un tema importante, quello del tempo, della rapidità, un argomento che ad oggi ci attanaglia e che Ernia ha spiegato alla perfezione sul palco del TEDx. Quando il mercato è saturo, uscire è importante, ma è importante farlo dicendo qualcosa. «L’esigenza comunicativa è la prima cosa, se non hai niente da dire è meglio che non lo dici», dopodiché è fondamentale capire quando esserci e quando no, perché essere produttivi è funzionale, ma certe volte il rischio è quello di essere eccessivamente esposti. «Se sei un po’ troppo ovunque, in tutti i dischi, in tutti i pezzi – a meno che non sei Cosimo – l’attenzione nel tempo calerà; a volte farsi desiderare è utile, vedi Marra, però devi anche avere quello status lì per potertelo permettere».
Devi sempre bilanciarti tra l’essere presente, quando è giusto che tu lo sia, e saperti defilare per far rinascere il bisogno della tua musica. Non è semplice, ma il timing è fondamentale.
Ciro Buccolieri ad Outpump
Il tempo è sempre stato un fattore decisivo per Thaurus, tanto per la musica che curano quanto per sé stessi. Quando Ciro, Shablo e Mario hanno deciso di unire le forze stava per scoppiare un fenomeno diventato oggi il business che tutti rincorrono. Con i piedi ben piantati nei valori del rap vecchio stile e con un occhio buttato sempre al passo successivo, hanno stretto accordi con artisti di Serie A e accolto giovani leve che hanno facilmente retto il confronto con la squadra, dettando così le regole per coloro che sarebbero venuti dopo. Gli obiettivi per il futuro non potevano che correre in questo senso. «La nostra volontà è sicuramente quella di diventare sempre di più una realtà di riferimento. Ci piacerebbe molto poter ampliare il nostro campo anche nello sport, sul modello di Roc Nation che ci ha sempre affascinato, e sulle nuove tecnologie, perché credo che longevità sia sinonimo di evoluzione, e se il mondo va in una direzione devi esser pronto ad accompagnarla». Sul proprio futuro Ciro è un po’ titubante, e non per insicurezza, bensì perché proviene da quella vecchia scuola in cui non è tanto importante sapere ciò che farai, quanto quello che non vorrai fare. «Io amo quello che faccio e spero di poterlo fare sempre meglio. Di una cosa sono sicuro, so quello che non farò. Spero di essere sempre entusiasta di questa merda, ma nel momento in cui – se dovesse succedere – mi renderò conto che la musica che fanno i ragazzi nuovi non mi piace, non mi rispecchia, non mi appartiene, non avrò nessun problema a prendere e andare a fare altro. Perché se devi fare questa cosa, la devi fare perché ne sei innamorato, la conosci e la capisci. Questo te lo posso assicurare, farò questo solo finché avrò quel fuoco, quella voglia, quell’amore vivo. Questo per me è importante».