Nessuno ha raccontato Napoli come il primo disco dei Co’Sang

Quando vent’anni fa i Co’Sang pubblicavano il loro primo album, Napoli non era glamour come oggi. Niente boom di turisti, niente scorci dei Quartieri Spagnoli, niente scudetti. Erano altri i motivi per cui la città finiva sulle prime pagine. Su tutti, la guerra di camorra che tanta letteratura avrebbe ispirato negli anni successivi.

E mentre l’Italia si accorgeva del dramma che attanagliava la città, Luché e Ntò già si erano fatti portavoce di quel disagio, riuscendo a dargli forma come nessuno. Chi more pe’ mme? Chi era disposto a morire per loro, a redimerli? Era questa la domanda che si facevano già dal titolo del loro album e la cui risposta, nella titletrack, lasciava pochi dubbi: «Nisciuno more pe mme, o sacc buono». Per questo non gli restava altro che fare rap e mettere in rima quel disagio.

Del lascito di Chi more pe’ mme, vent’anni dopo, è anche inutile discuterne, tale è la grandezza di quest’album. L’attestato di stima più illustre, forse, è arrivato da Marracash∞ Love è uno dei singoli di maggior successo degli ultimi anni, e Marra ha pensato bene di aprirne il videoclip, così profondamente milanese, con la traduzione di una frase che Ntò aveva dedicato a casa sua, a Napoli: «L’ammore è l’unico ca addura ancora, e si perde int’ o rione». Sono le ultime parole di Int’ o rione, scelte con delicatezza da Antonio per chiudere il pezzo più celebre dei Co’ Sang: di sinestesie da cogliere col tempo, e solo a patto di disporre di una certa sensibilità, Chi more more pe’ mme è pieno, e questa è una delle più mirabili.


Per afferrare appieno lo spirito dell’album, però, bisogna soffermarsi sulle parole immediatamente precedenti, quando Ntò dice che a lui spetta il compito di comunicare, non di giudicare.

È molto comodo, quando si parla dei problemi delle periferie italiane, di quelle del sud in particolare, abbracciare il dualismo del buono contro il cattivo, dello stato contro i suoi nemici. Lo vediamo ancora oggi quando media e istituzioni trattano determinati eventi di cronaca. Se solo fosse tutto così facile… Invece le contraddizioni, i fattori contestuali, le sfumature nelle vicende personali di ognuno, che portano a prendere determinate decisioni, purtroppo esistono, non c’è solo il bianco e il nero. Ecco perché occorreva comunicare, non giudicare: fornire una testimonianza fedele, plasmare la propria rappresentazione senza lasciarla in mano ad altri e senza calare nessuna morale dall’alto.

È emblematico, allora, che dopo la intro la prima traccia dell’album si intitoli Chello ca veco, quello che vedo: era questo l’obiettivo di Luca e Antonio, offrire un ritratto dall’interno della realtà che li circondava, la storia di chi era cresciuto come loro e insieme a loro. Di chi uscendo di casa aveva promesso alla madre che sarebbe rientrato presto, ma in realtà non sapeva che col freddo di un ferro puntato in bocca non solo il sangue, si gelano persino i denti (mi scuserà Luché se ho provato a tradurre un’immagine così potente). E poi arriva Ntò, a raccomandare di non fidarti di niente di quello che vedi, perché il male può nascondersi ovunque, in una palestra, in un bar aperto la notte, persino dietro il bancone di una salumeria (dove all’epoca, nella loro periferia, venivano vendute di sottobanco le siringhe e i lacci emostatici ai tossici: Luché avrebbe usato la stessa reference in Ghetto memories, uno dei suoi migliori pezzi da solista). Il resto è mancia, pensassero gli altri rapper a rappare tanto per dare aria al microfono, l’urgenza di Antonio e Luca era diversa.


Chello ca veco è la prima finestra sul loro mondo, e schiude l’orizzonte di un progetto caratterizzato da grande coesione, perché l’aria è sempre pesante e le scelte di suoni e parole ci tiene a rimarcarlo. Persino in un episodio che dovrebbe richiamare alla spensieratezza dell’adolescenza come Fuje Tanno (“Fu allora”), che Luché e Ntó durante il concerto di Piazza Plebiscito a settembre hanno definito come il loro pezzo più rappresentativo: la malinconia di Fuje tanno, così come di Povere ‘mmano – “Polvere in mano”, il pezzo scritto «pe salutà chi se n’è juto giovane» – quel gangsterismo animato da una venatura di nostalgia, è sempre stato la cifra stilistica di Luché e Ntò, anche da solisti. Parte da allora e arriva fino alla traccia di chiusura del loro ultimo album, Dinastia, che infatti mischia proprio i ritornelli di Povere ‘mmano e Fuje tanno.

Nessuno ha saputo trasmettere quel sentimento più di loro. Forse perché il senso di sconfitta, soggezione, di chi è cresciuto in certe realtà non si lava mai del tutto: «Per questo fatto di nascere in un posto che è già morto, tu pensi che dalla vita non puoi avere di più. Come se tu non meritassi più di quello che hai. Psicologicamente infligge tantissimo», avrebbe detto Luché in un’intervista del 2011.


E allora, oltre alle rime, era giusto concedere spazio in prima persona a quelle voci a margini dalla storia. Da qui la scelta di dedicare le due interlude, Buonanotte pt 1 Buonanotte pt2, ai saluti che le mogli portavano ai mariti in prigione attraverso una trasmissione radiofonica trasmessa in carcere – dal nome Buonanotte appunto – per ricordarci che dietro ogni condanna c’è una vicenda umana. O di insistere coi primi piani nel video di Int’ o rione per mostrarci quanto la periferia segnasse i volti, persino quello di un bambino.

In Italia non c’era mai stato niente di simile, ed è affascinante pensare al processo creativo di Ntò e Luché, al fatto che abbiano dovuto costruire come degli artigiani la propria poetica e il proprio suono: Luché non ci aveva messo solo le rime, ma si era occupato di creare in prima persona le strumentali e dare al progetto una direzione ben precisa.

Ne era nato un album che, impregnato di Napoli, aveva riscosso consenso anche da chi non parlava il loro dialetto, ma riusciva a condividerne la rabbia. 

E allora, se si vogliono comprendere i Co’Sang e Chi more pe’ mme, se si vuole riconoscere in loro un respiro più ampio di Napoli, non bisogna nemmeno allargare lo sguardo sul rap italiano, ma sull’Europa e sul mondo. Sono due i dischi a cui è impossibile non associare Chi more pe’ mme. Uno di questi è senza dubbio The Infamous, il capolavoro dei Mobb Deep, dal quale Luca e Antonio hanno sicuramente attinto. L’altro, invece, è Mauvais Oeil dei Lunatic, uno degli album più belli di sempre del rap francese: non vi è certezza che facesse parte del retroterra di Luché e Ntò (il sospetto è fondato, visti i continui riferimenti dei Co’ Sang al rap d’oltralpe lungo la loro carriera), ma proprio come Chi more pe’ mmee e The Infamous è il testamento di due ragazzi del ghetto, amici da una vita, che hanno convogliato rabbia e violenza nelle rime, scegliendo da soli di darsi una rappresentazione.

Vorrà senza dubbio dire qualcosa che The InfamousMauvais Oeil e Chi more pe’ mme siano usciti a cadenza regolare di cinque anni l’uno dall’altro.

Il filo conduttore è il messaggio, che parte nel 1995 dal Queens con Havoc e Prodigy, raggiunge Parigi nel 2000, dove ad accoglierlo ci sono Booba e Ali, e nel 2005 si propaga fino alla periferia nord di Napoli, dove il sangue ribolle nelle vene di Ntò, Luché e tanti altri ragazzi come loro. Lo stesso sentimento ma declinato in lingue diverse. Del resto, il rap negli anni è diventato un linguaggio universale proprio perché la rabbia è il sentimento più universale che ci sia

Dopo così tanto tempo ha ancora senso provare a chiedersi chi sia disposto a morire per chi, oggi, veste i panni di Luché e Ntò di 20 anni fa. E per quanto Napoli e il sud siano diventati più instagrammabili, la risposta forse non è cambiata, visto che ancora si continua a raccontare questi luoghi o con un certo esotismo – quello delle bancarelle della frutta e dei vecchietti che giocano a carte – oppure con un’inutile compassione: «Sto posto provoca rummore e commuove gli ipocriti», diceva Ntò. I problemi di fondo, allora, rimangono lo stesso, e quindi ancora oggi nisciuno more pe’ mme.