Oggi la gente parla di denim e jeans come fossero la stessa cosa, e tutto sommato non è nemmeno sbagliato, ma le loro origini evidenziano una certa differenza. Aprendo questo discorso, ci dobbiamo imbattere in quella che si può definire l’eterna rivalità tra italiani e francesi, perché nel XVI secolo troviamo due realtà contemporanee molto vicine e in competizione: da una parte abbiamo il blue-de-Gênes, un termine successivamente storpiato dagli americani in blue jeans, il quale indicava una stoffa blu formata da intrecci di fustagno a tessitura diagonale prodotta a Chieri e venduta nel porto di Genova, dove grazie a mercanti e soprattutto marinai veniva ampiamente apprezzata per le sue doti di resistenza e robustezza, ideali per creare abiti da lavoro, vele per navi e sacchi destinati al trasporto delle merci; dall’altra invece troviamo un tessuto piuttosto simile a quello sopra citato, ma caratterizzato da un intreccio bianco/blu irregolare di cotone e lino proveniente dalla cittadina francese Nîmes, che gli diede il nome di De Nimês. Entrambi condividevano più o meno le stesse peculiarità manifatturiere, e persino l’inconfondibile tintura indaco. In seguito, le rispettive caratteristiche si fusero a tal punto da renderli praticamente indistinguibili ed è così che arriviamo alla concezione odierna di jeans/denim. Oggi per convenzione la parola “denim” viene associata al tipo di materiale, mentre il termine “jeans” definisce il modello di pantalone divenuto celebre proprio per l’utilizzo di quel tessuto.
Per arrivare a questo però bisogna aspettare l’Ottocento, periodo in cui la relativamente giovane America incarnava un territorio ancora tutto da scoprire e valorizzare. In quel periodo si andò a scatenare la cosiddetta “febbre dell’oro”, un fenomeno che coinvolgeva imprenditori e soprattutto minatori in una frenetica ricerca di metalli preziosi, affluendo nelle desolate terre vergini. In questo contesto, un certo Levi Strauss mise in atto il suo pallino per gli affari decidendo di soddisfare una delle necessità maggiori dei cosiddetti gold digger: uniformi da lavoro pratiche e resistenti. Quindi, nel 1853 a San Francisco viene fondata la Levi Strauss & Co., una piccola azienda rappresentata da una bottega in cui venivano venduti abiti da lavoro fabbricati con materiali importati dall’Europa, tra cui proprio il jeans. Una svolta decisiva che cambierà il corso della storia avverrà quando il sarto Jacob Davis, in seguito alla richiesta di un cliente di rinforzare le tasche dei pantaloni, ebbe l’idea di inserire e fissare nei jeans dei rivetti in rame che permettessero maggior resistenza. Ogni invenzione però ha un prezzo, e in questo caso corrispondeva a $68, cifra di cui l’inventore non era in possesso: fu così che Davis si presentò al facoltoso Strauss per intraprendere una collaborazione a buon rendere, il cui culmine si ebbe il 20 maggio 1873, giorno in cui i due soci ottennero la patente di registrazione del jeans Levi’s.
Quel tanto voluto brevetto scadde a fine secolo, permettendo di conseguenza la messa in gioco di altri brand nascenti come Lee e Wrangler, che avevano visto un enorme potenziale in quel prodotto, ma nel frattempo grazie anche alla produzione su scala mondiale e al lancio dei celebri Levi’s 501, i jeans dilagavano ormai ovunque nel mondo del lavoro e non solo, dai ferrovieri ai minatori, fino ai cowboy e un po’ a tutta l’umile classe operaia.
I decenni passano e il mondo subisce un forte cambiamento dovuto soprattutto all’inizio della globalizzazione e alla nascita della moderna cultura popolare, rappresentata da celebrità come attori e cantanti pronti a guidare la massa verso un nuovo modello di quotidianità che parte proprio dal costume. Marlon Brando, Elvis Presley e James Dean sono stati i primi a indossare i pantaloni in denim al di fuori del workwear, ispirando un’intera generazione ad abbattere le norme e rivoluzionare i canoni estetici di una società ancora troppo ancorata al conformismo degli stereotipi borghesi. Un forte alleato di questa concezione sarà la t-shirt, un capo che oltre a costituire una perfetta e intramontabile combinazione stilistica ha spinto a credere negli stessi valori di un abbigliamento meno stigmatizzato e più rilassato, definito casual. È così che dagli anni Sessanta parte una vera e propria rivoluzione nella moda, interessando direttamente tutte le controculture, veicolo di identità e cambiamento. Si può dire che da lì in poi tra l’uomo e il denim crescerà un rapporto di amore indelebile, a tal punto da farlo diventare uno dei materiali più utilizzati di sempre. I momenti iconici che lo riguardano sono davvero molti, a partire dall’invidiabile look di coppia indossato da Britney Spears e Justin Timberlake agli American Music Awards 2001, il quale ha riassunto meglio di chiunque altro l’estetica pop degli anni Duemila.
Come abbiamo detto, il jeans nei decenni ha assunto il ruolo di icona per eccellenza, interessando soprattutto il mondo dello streetwear e dell’alta moda, che analizzandone le proprietà lo hanno rivisitato, reinterpretato, riaggiornato ed evoluto costantemente attraverso tecniche che lo hanno reso più confortevole, versatile e unisex, talvolta inventando nuovi tipi di lavorazioni e design, dal délavé allo stone wash fino alla destrutturazione con strappi e patch.
Ho detto spesso che avrei voluto inventare i blue jeans, il più spettacolare, pratico, rilassato e disinvolto capo di sempre. Hanno espressione, modestia, sex appeal e semplicità; in pratica tutto ciò che voglio ottenere dai miei vestiti.
Yves Saint Laurent
Oggi le caratteristiche del denim si definiscono tramite la grammatura delle once: 7-8oz per la camiceria, 9-12oz per capi particolarmente confortevoli grazie anche all’unione con l’elastan, 13-14oz per i jeans più tradizionali e infine 19-21oz, il peso più estremo e difficile da trovare che tiene viva una certa ricerca da parte di veri intenditori.
Sebbene gli Stati Uniti rappresentino un punto di riferimento nell’evoluzione del denim, il Giappone va assolutamente considerato come una realtà altrettanto importante e forse ancor di più significativa dal punto di vista concettuale. Finita la Seconda Guerra Mondiale, come già saprete, i soldati statunitensi abbandonarono il Sol Levante dopo l’occupazione, introducendo nel mercato nero locale capi d’abbigliamento e materiali finora estranei all’estremo Oriente. Tra questi quello che affascinò di più il popolo nipponico fu il denim, un tessuto che ben presto divenne oggetto di studio e si radicò molto profondamente nei valori e nella tradizione del Paese. In tutto questo, il centro nevralgico è Kojima, una città nella prefettura di Okayama, dove tuttora esistono un museo del denim, una via chiamata “Jeans Street” e una singolare tendenza ad esporre i jeans nell’arredo urbano, dai graffiti ai distributori automatici, fino a trovarli appesi ai tralicci della luce e persino a delle pietanze a essi dedicate. Ma non si tratta solo di folklore, lì è possibile trovare aziende, fabbriche specializzate e negozi che producono i jeans con i più alti standard qualitativi, a tal punto da essere i più costosi al mondo seppur non griffati. Ciò che per la maggiore accomuna il jeans giapponese è l’utilizzo del raw denim, la versione più pura e scura della tela ottenuta subito dopo il lavaggio con la tintura indigo, che così permette al colore di sbiadire naturalmente con l’usura. Questa reazione non ha solo un valore estetico, ma simboleggia un profondo pensiero che possiamo riassumere con il termine “mottainai“, una parola non traducibile che descrive uno dei concetti della filosofia giapponese: se non vivi una cosa e non la consumi, allora è uno spreco.
Ciò che, parlando di denim, ha sempre colpito e continuerà a farlo in futuro, è la sua totale universalità, vista come infinita risorsa di creatività, a tal punto da scatenare la fantasia di numerosi brand che ne hanno definito un approccio completamente inedito. Tra questi vanno sicuramente citati FACETASM e 69. Il primo, nato dalla mente di Hiromichi Ochiai, già dal suo nome indica come una cosa può essere interpretata diversamente in base alla prospettiva da cui la si guarda e nelle sue collezioni si è contraddistinto per un utilizzo del denim assai concettuale e sperimentale, che ha riscritto i canoni delle forme distruggendole e ricomponendole in un’ottica non convenzionale. Il secondo invece è 69, label L.A. based capitanata da un designer anonimo di cui non si conosce l’identità, ma che ha fatto parlare di sé per le sue creazioni libere dalla stagionalità e dalle convenzioni di genere, orientate verso uno stile a tutto tondo in cui il denim è mezzo di sperimentazione e avanguardia.
Finora ci siamo soffermati esclusivamente sugli indiscutibili aspetti positivi del denim, ma non è tutto oro quel che luccica. Per produrre ogni singolo paio di jeans, occorrono infatti in media settemila litri d’acqua, numerosi solventi chimici e tinture ricche di materiali pesanti, il che lo rende uno dei capi più impattanti per l’ambiente. Tuttavia nell’ultimo periodo la sostenibilità sta diventando un elemento più che fondamentale all’interno delle nostre vite e dunque la sensibilizzazione che ruota intorno a essa ha fatto scaturire un’importante ricerca nei confronti di metodi che rispettino la natura.
Una delle opzioni più semplici e diffuse è quella del riciclo, che si sposa perfettamente con la tendenza vintage, dovuta anche al fatto che i jeans sono probabilmente l’unico capo in grado di migliorare invecchiando. Soprattutto in America, molti collezionisti vanno alla ricerca dei modelli più datati per adattarli in chiave attuale secondo lo spirito D.I.Y. e persino Miu Miu questo mese lancerà in collaborazione con Levi’s una capsule chiamata “Upcycled” con 501 d’archivio rielaborati con una sensibilità couture. Ma non solo, allargandoci al design troviamo l’esempio di IKEA, che recentemente ha rilasciato la linea in edizione limitata FORTSKRIDA con tende e fodere derivate dal riciclo di bottiglie di plastica e jeans.
In parallelo, l’innovazione continua a fare passi da gigante, come testimonia UNIQLO con il suo progetto BlueCycle. Nel Jeans Innovation Center con sede a Los Angeles il brand giapponese sta sviluppando una tecnologia in grado di ridurre fino al 99% la quantità d’acqua utilizzata nel processo di rifinitura dei jeans e ha già sostituito la tecnica della carteggiatura con l’invecchiamento tramite laser, per alleggerire il carico sui lavoratori nel nome di una catena produttiva più etica.
Indubbiamente, nella sua storia secolare, il denim si è insediato nella cultura dell’uomo rivoluzionandola e migliorando la vita quotidiana, ma guardando ai giorni che verranno deve imbattersi in una nuova sfida cruciale: riscriversi come solo lui sa fare per salvaguardare il nostro pianeta e perciò decretare definitivamente il suo status di icona immortale.