«What else should I be? / All apologies / What else should I say? / Everyone is gay»
È con queste parole tratte da All Apologies dei Nirvana, nella straziante e aulica versione di Sinéad O’Connor, che si apre la nuova opera metafisica di Luca Guadagnino, Queer.
Tratto dall’omonimo romanzo di William S. Burroughs, uno dei più importanti esponenti del genere beat e autentico architetto di un nuovo universo letterario e narrativo, definisce il proprio racconto attraverso il suo alter ego William Lee, perso nel limbo di Città del Messico tra la ricerca di un amore autentico e vero, e le possibilità di poter comunicare ad un nuovo livello percettivo, unicamente sinaptico.
Lee è un’animale notturno, che si ciba di ogni essenza che la vita gli sottopone, diventando vittima e carnefice della sua stessa esistenza. Cadendo perennemente nella Sodoma messicana, tra cinema d’essai e strazianti bar urbani, rimarrà folgorato dalla figura misteriosa e mistica di Eugene Allerton con il quale intraprenderà un viaggio nei meandri del Sud America alla ricerca esperienziale di una nuova vita in perenne contatto con il suo vero amore. Innamorarsi e perdersi, fino a smarrirsi per sempre.
Per Guadagnino portare in scena l’opera più discussa di Burroughs non era solo un modo per esaudire il desiderio di un giovane ragazzo di 17 anni che vide nell’autore americano una nuova e perfetta linfa narrativa, ma esplorare ancor di più come il suo cinema sia l’autentica rappresentazione di come l’amore, nelle sue molteplici forme e essenze, possa essere perennemente il messaggero di un nuovo mondo da scoprire, e soprattutto di quanto la musica, in affinità con la congiunzione anatomica dei corpi da lui narrati, offra molteplici chiavi di lettura alla sua forma registica.



Fin dai primi fotogrammi di Queer, che definiscono la stanza fisica e psichica in cui Lee trascorre le sue infinite giornate, l’apparato sonoro e musicale, composto nuovamente da Trent Reznor e Atticus Ross, diventa funzione della realtà metafisica in cui il suo stesso protagonista sembra abitare.
La musica è come se non fosse mai presente nella realtà che lo circonda, ma al contrario ne costruisce l’immaginario onirico in differenti realtà sospese tra amore e perdita. Il suo vagabondare è sia ammaliante che viscerale, sinaptico, sporco, al limite della percezione umana. Il suo corpo in congiunzione con quello di Eugene risuona e ribolle in un’estenuante dissociazione dalla realtà, tra trance music e industrial techno. È un suono spezzato, granulare, come se loro stessa l’identità umana si disintegri in molteplici particelle.
Se in Challengers la direzione musicale era ben precisa nel costruire un perfetto triangolo sessuale, un dancefloor sinuoso ed ammaliante, in questo caso Guadagnino permette ai suoi compositori feticci di esprimersi ancor più liberamente, attingendo alle molteplici sonorità che hanno definito la loro immagine nel mondo della musica per immagini.
Al primo ascolto potrebbe quasi sembrare anarchica, ma la colonna sonora di Queer è l’essenza stessa del suo racconto. Dal tema hollywoodiano di Pure Love che sembra uscire letteralmente dalla pellicola di un classico composto da Bernard Herrmann, all’elettronica oscura e corporea risalante ai primi fasti dei Nine Inch Nails, ogni aspetto compositivo riflette perfettamente la poetica di Luca Guadagnino, così come lo stile narrativo dello stesso Burroughs.
In antitesi a ciò che oggi avviene nella composizione di una colonna sonora, Queer si regge pedissequamente su un singolo tema che ne enfatizza perfettamente il viaggio infinito tra le viscere immaginifiche del suo stesso protagonista. Da prima sinfonico e ammaliante, il leitmotiv di Queer si annulla nell’essenza stessa in cui l’esperienza onirica di Lee e Allerton inizia a farsi sempre più frammentaria, riducendo la stessa composizione ad una piccola particella ritmica ripetuta ciclicamente.
Lo sdoppiamento corporeo della realtà ambientale e sinfonica si inserisce perfettamente in un piccolo spiraglio di luce che accompagna Lee verso la fine del suo stesso amore, abbandonandosi completamente a sé stesso. È un sogno? È la porta sulla sua psiche che è stata finalmente aperta? Allo spettatore non è dato sapere cosa questo viaggio allegorico voglia significare ma è certo che la musica ne trasmetti effettivamente ogni fase nella sua stessa snaturazione timbrica.
Come analizzato dagli stessi compositori:
«La collaborazione più recente con Luca, Queer, è stata particolarmente impegnativa, perché ti trasporta in un mondo surreale: l’immagine in sé è davvero insolita e anche l’universo che i personaggi abitano ha qualcosa di straniante. Quando abbiamo iniziato a scrivere la musica, però, tutto questo ancora non c’era. E immergersi in quell’atmosfera, senza vederla concretamente, è stato più difficile del solito. La prima volta che abbiamo visto Queer nella sua forma definitiva è stato un momento incredibile – ci siamo detti: “Wow, è pazzesco.” Ma quella sensazione non l’avevamo ancora vissuta durante la composizione della colonna sonora, capisci cosa intendo? È stato diverso da qualsiasi altro film, proprio perché l’aspetto visivo ha un peso enorme nel trasmettere l’emotività del racconto. In Queer, ci interessava molto spingere lo spettatore a provare empatia, romanticismo o tenerezza verso Lee anche nei momenti in cui, di fatto, è in completa antitesi con tutto ciò — sia attraverso le sue azioni, che attraverso quello che vediamo sullo schermo. È proprio questo l’aspetto più stimolante, per noi, nel lavorare a un film».
La perfetta raffigurazione musicale di Queer non si compie solo attraverso la strutturazione della sua colonna sonora metafisica, ma anche nella sua stessa supervisione musicale, curata da Robin Urdang, che riesce a mostrare apertamente lo spirito caotico e avanguardistico dello stile narrativo di Burroughs.
Partendo dai Nirvana con All Apologies e Come as you are, enfatizzando come lo stesso Kurt Cobain fu fortemente influenzato dalla figura dell’autore americano tanto da iniziare una collaborazione con lui stesso un anno prima della sua morte, la musica edita definisce nello stile e forma letterale lo tecnica del cut-up che tanto rese celebre Burroughs come autentico innovatore delle beat generation.
Combinando più elementi tratti da molteplici linguaggi artistici, Burroughs arrivò alla concezione che tagliando fisicamente un testo scritto e lasciando intatte solo alcune parole o frasi e mischiandone in seguito i vari frammenti e ricomponendo così un nuovo testo, si potesse arrivare alla concezione di una nuova forma letteraria tanto da influenzare successivamente molteplici songwriter come Bob Dylan e soprattutto David Bowie.
Come diceva lo stesso Burroughs i tagli consentono al futuro di percorrere lo spazio in cui essi vengono rappresentati, e così diventa normale assistere alla raffigurazione di una Città del Messico decostruita della sua essenza, in cui il nostro protagonista passeggia sotto le note dei Verdena o di Prince. Tutto diventa manifestazione della sua stessa poetica.
Queer è un’esperienza metafisica in cui un uomo dilaniato dal suo stesso amore, si lascia trasportare da una sinfonia rotta, imperfetta, che lo guida verso la frattura alterata della realtà tra desiderio e rappresentazione. È un film che non cerca risposte ma stratificazioni, evocazioni, aperture. Come nella tecnica del cut-up, ogni scena, ogni canzone, ogni sguardo spezzato di Lee diventa frammento di un’identità cangiante, mai definitiva, in cui l’amore è insieme rovina e salvezza, luce e polvere.
Nell’universo crepuscolare di Guadagnino, filtrato dallo sguardo visionario di Burroughs, tutto si mescola, tutto si fonde, e la musica non accompagna ma deforma, non sottolinea ma plasma. Queer è il suono di un’identità cangiante che rinasce senza forma, e proprio per questo profondamente umana.


