Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, una serie di designer emergenti si affacciarono al panorama fashion internazionale travolgendolo con un’estetica tanto inaspettata quanto rivoluzionaria. In antitesi alla femminilità “sovrannaturale” di Mugler o alla sensualità della donna secondo Azzedine Alaïa, infatti, stilisti come Martin Margiela e Rei Kawakubo portarono sulle passerelle quella che la stampa francese definì come “la mode destroy”: una versione quasi post-apocalittica e apparentemente rovinata – o meglio, “distrutta” – del guardaroba del tempo. L’obiettivo di questi nuovi designer “anti-fashion”, però, non era certo quello di vendere a un pubblico di creduloni capi d’abbigliamento usurati e malconci, e nemmeno quello di svalutare o minimizzare le donne (accusa che è stata spesso mossa a Kawakubo). Al contrario, allontanandosi da una rappresentazione provocante, dalle silhouette aderenti e statuarie e dai canoni di bellezza delle top model del tempo, Margiela e gli altri volevano porre di nuovo l’accento sul valore proprio dei vestiti, focalizzando l’attenzione su un’idea o un concetto più che sulla valorizzazione del corpo o sulla funzione estetica in sé. In questo modo, ogni capo avrebbe avuto un valore aggiunto che lo elevava a qualcosa di più di un semplice pezzo di stoffa, in quanto legato per esempio a temi di politica internazionale, alle esperienze di vita degli stessi designer o all’esistenza umana in generale.
40 anni fa quindi, mentre il settore del fashion era dominato da colori audaci, spalle gigantesche e stravaganza in generale, Rei Kawakubo cominciava a realizzare maglioni “bucati” e silhouette tutt’altro che umane, e Margiela proponeva maniche strappate, orli sfrangiati e scarpe sgraziate. Oggi, la situazione sembra essere tornata la stessa, con “la mode destroy” che trionfa nelle fashion week di tutto il mondo e l’estetica trasandata pronta a riapparire nelle nostre vite. Ricordate i pantaloni in denim sporchi di macchie d’erba della collezione Autunno/Inverno 2020 o i collant già strappati di Gucci? Ecco, quello era solo l’inizio.
Principale esponente di questa nuova “ondata di distruzione” è ovviamente Demna Gvasalia, responsabile di aver trasformato Balenciaga (storicamente simbolo dell’haute couture d’avanguardia di metà ‘900) nel brand “anti-fashion” per eccellenza. Se le tute in materiale sintetico da look post sovietico e l’assurda stratificazione di giacche outdoor non erano abbastanza, il manifesto di questa moderna estetica “catastrofica” è arrivato con le ultime sneakers della maison francese (le cosiddette “Paris”), che si prendono gioco del significato stesso di “scarpa da ginnastica” presentandosi completamente deteriorate, sbiadite e bucate. Semplice provocazione, strategia di marketing, valorizzazione di un processo non replicabile oppure un messaggio rivolto alla situazione politico-sociale contemporanea? Il dubbio c’è, ma il risultato è comunque una sneaker in perfetta linea con il trend del momento.
Oltre alle scarpe distrutte di Balenciaga, nelle ultime stagioni numerosi capi volontariamente rovinati e invecchiati sono prepotentemente comparsi nelle collezioni di tantissimi marchi sia per lui che per lei, rafforzando il ritorno di un’estetica sempre più “rozza”, ribelle e apparentemente trascurata. Insieme a Vetements, fratello amico/nemico di Balenciaga, anche Acne Studios, Marni e Dolce & Gabbana, per citarne alcuni: tutti sembrano voler cavalcare il ritorno della “mode destroy”, che sia con dei classici distressed denim pants (o più semplicemente jeans strappati) o con maglioni decostruiti nei modi più stravaganti.
Se c’è un dettaglio del passato che però sta più di tutti attirando l’attenzione degli stilisti d’oggi, questo è sicuramente il craquelé (o cracklé). Termine che definisce le screpolature che si creano sulle superfici dei dipinti, l’effetto craquelé è da sempre anche una caratteristica naturale della pelle, in grado di donare un effetto “invecchiato”, affascinante ma soprattutto assolutamente casuale. Dopo un periodo di totale assenza dell’uso di pelli craquelé, dovuto probabilmente alla predominanza di un’estetica più rigorosa e ordinata, recentemente sono stati Givenchy e Diesel a riportare in auge i tessuti crepati.
Nei decenni scorsi, tuttavia, fu sempre Martin Margiela, presidente mai eletto della “mode destroy”, a trasformare questa tecnica in uno dei suoi segni più riconoscibili, se non addirittura nella perfetta manifestazione della sua filosofia e della sua espressione creativa. Fin dagli inizi, infatti, Martin e il suo team erano soliti collezionare abiti, accessori e oggetti usati per poi rielaborarli individualmente a mano negli atelier Margiela. Ed è così che nel 1999 comparirono i primi capi interamente dipinti, senza tener conto di cuciture o accessori metallici, con miscele di colore di diversa composizione e viscosità, ottenendo risultati unici e sempre differenti. La particolarità di questi capi era, ovviamente, la grande fragilità dovuta all’artigianalità del processo (da qui il nome “Artisanal” della linea che dal 2006 racchiude tutti i capi riadattati dallo staff della maison): più i vestiti venivano utilizzati, più si crepavano e si deformavano adattandosi al corpo in maniera irripetibile, facendo sì che ognuno possedesse un oggetto quasi “personalizzato” e realizzato ad hoc. La famosissima pittura bianca crepata è ormai sinonimo di Margiela e per questo, anche se con processi “industrializzati”, lo stesso effetto viene ricreato su qualsiasi prodotto del brand, che siano biker in pelle, gli iconici tabi o piccoli portafogli.
Qualche anno dopo fu invece Rick Owens a riprendere questa tecnica e, come era successo per Margiela, i capi verniciati riscossero subito grande successo, tanto da diventare oggi delle vere e proprie icone della storia della moda, se non addirittura pezzi d’archivio rivenduti a prezzi esorbitanti. In particolare, nel 2005 il designer americano presentò una linea secondaria, dal nome “DRKSHDW“, che aveva l’obiettivo di diffondere la distintiva estetica “goth” di Rick Owens grazie a prezzi più accessibili e capi più semplici da indossare. Quella che inizialmente doveva essere solo una collezione di abbigliamento in denim, però, si trasformò rapidamente in un sotto brand d’ispirazione streetwear che mescolava materiali di alta qualità a un’estetica minimalista per creare intere collezioni di pezzi unisex.
Felpe, tute e canottiere ma anche pantaloni e sneakers: DRKSHDW divenne il mezzo di Rick Owens per convogliare la sua visione nello sportswear e reinterpretare capi di uso quotidiano grazie a dettagli e lavorazioni da alta moda. All’interno della nuova linea, i prodotti che concettualmente centravano meglio l’obiettivo furono appunto quelli trattati con la vernice poiché, col tempo, si trasformavano in opere d’arte uniche con un impatto visivo raro.
Per vedere il craquelé fare il suo trionfante ritorno sulle passerelle, però, bisogna aspettare il 2020 e l’arrivo di Matthew Williams alla guida di Givenchy. All’interno della collezione primavera/estate 2021 infatti, il debutto di Mr. Alyx come direttore creativo della maison francese, comparvero per la prima volta quelli che ormai sembrano essere diventati un capo must have del brand: i pantaloni in denim craquelé. I jeans skinny proposti da Matthew Williams erano caratterizzati, oltre che da due zip poste sull’interno coscia, da uno spesso strato di vernice colorata (inizialmente rosa, bianca o nera) che donava texture e tridimensionalità a una silhouette all’apparenza banale. In seguito, quasi tutte le collezioni presentate da Matthew Williams negli ultimi due anni hanno incluso una nuova versione del capo, con sperimentazioni di colori e superfici sempre differenti e sempre più audaci.
E, che sia Matthew Williams la causa dell’esplosione della craquelé-mania o meno, dopo la famosa collezione S/S 2021 di Givenchy, tantissimi brand hanno deciso di inserire pezzi pitturati e “crepati” all’interno dei loro show room. Primo fra tutti sicuramente Diesel che, grazie alla nuova direzione creativa di Glenn Martens, è riuscito a tornare al vecchio splendore e al centro del panorama fashion internazionale, dominando le passerelle e le strade di tutto il mondo.
Anche in questo caso, già a partire dalla prima collezione della “nuova era” ad attirare l’attenzione fu proprio la lavorazione definita dal brand stesso “peel-off”. L’innovativa tecnica introdotta da Diesel abbandonava la pittura “artigianale” in favore di una serie di strati di organza o di una carta speciale, sovrapposti al tradizionale denim 100% cotone (marchio di fabbrica del brand), che venivano poi sottoposti a trattamenti per ricreare l’effetto scrostato. Il risultato è un insieme di capi – dai più classici denim pants e trucker jacket a cappotti lunghi e t-shirt – ispirati all’estetica naturalmente consumata dei jeans d’archivio Diesel. In più, coating colorati, tecniche di lavorazione a maglia e sovrastampe moderne rendevano i prodotti del marchio italiano dei piccoli capolavori di ingegneria e innovazione.
E il trend sembra essere destinato a non arrestarsi nel breve periodo. Durante le ultime fashion week, infatti, diversi brand hanno deciso di interpretare a loro modo la tecnica del craquelé, amalgamandola all’estetica del marchio ma allo stesso tempo cavalcando l’onda di una moda in ascesa. Tra questi, Olivier Rousteing ha deciso di inserire all’interno della collezione Pre-Fall 22 di Balmain diversi capi in pelle nera pitturata d’ispirazione Margieliana; mentre il già citato Glenn Martens per la collezione Fall 22 del suo brand Y/Project ha optato per una versione più tradizionale di pelle craquelé con cui ha rivisitato un bomber jacket. Sulla scia dei design di Diesel e Givenchy, invece, Marc Jacobs ha utilizzato il craquelé per gonne, vestiti e giacche in colori accesi e brillanti. Come sarebbero le Polly Pocket di Rick Owens? Probabilmente così.
È impossibile prevedere cosa ci riserverà il mondo del fashion per le stagioni future, ma il trend del craquelé è paragonabile all’ormai dimenticato tie-dye, con numerosi stilisti che decidono di inserire alcuni capi in versione rovinata all’interno delle proprie collezioni per seguire il gusto popolare.