La notizia era iniziata a circolare già negli ultimi mesi del 2020 e da qualche giorno è stata ufficialmente diffusa da adidas attraverso un breve comunicato: l’azienda tedesca ha deciso di vendere il marchio Reebok, la controllata acquisita ormai quindici anni fa che non è mai riuscita a gestire nel modo migliore. Dalle poche parole con cui l’attuale CEO di adidas, Kasper Rørsted, ha annunciato l’inevitabile separazione (e indirettamente la ricerca di nuovi acquirenti pronti a subentrare sin da marzo) sembra finalmente delinearsi il futuro dei due marchi, per cui la scissione sembra essere l’unica soluzione possibile da prendere. Nella decisione del dirigente danese si legge velatamente anche l’ammissione, forse tardiva, che al netto di quanto incasserà adidas per la cessione di Reebok, circa la metà di quanto investito ai tempi, l’operazione conclusa nel 2006 con i migliori auspici possa ormai considerarsi una parentesi fallimentare per le sorti di entrambi i brand.
Sicuramente non va fatto ad adidas un processo alle intenzioni, quelle di provare a conquistare più terreno possibile per ridurre il gap con Nike soprattutto nel mercato statunitense, puntando forte sull’influenza di Reebok nella cultura sportiva americana. Nel 2004, adidas aveva una quota di mercato globale del 15,4% e Reebok del 9,6%: pertanto la costituzione di un’alleanza strategica tra il secondo ed il terzo brand più diffusi del mondo sembrava una mossa concettualmente perfetta, quantomeno in termini puramente numerici, per provare ad attaccare da vicino il dominio di Nike, forte di una fetta percentuale del 33,2. In realtà, dopo l’unione sancita nel 2006, adidas e Reebok hanno continuato ad operare su percorsi differenti senza mai concentrarsi seriamente su obiettivi comuni, e rimanendo di fatto per anni come dei separati in casa: le conseguenze di questo “matrimonio di facciata” hanno penalizzato principalmente il brand nato in Inghilterra nel 1895 che ha progressivamente perso la sua identità, e di conseguenza la popolarità che era stato in grado di costituire nel corso degli anni e che sembrava inattaccabile.
Il boom nel mondo dell’aerobica e nell’universo sportivo femminile conseguente al lancio delle Freestyle nel lontano 1982; gli accordi con le leghe professionistiche più importanti come la NFL e la NHL; e le prestigiose sponsorizzazioni di Venus Williams e Michael Chang, di Shaquille O’Neal e Allen Iverson (con cui aveva siglato un ricchissimo lifetime deal nel 2001), resero Reebok uno dei brand sportivi più in voga negli Stati Uniti, predominante soprattutto nel mondo del basket anche grazie alla celebre partnership con il Dream Team alle Olimpiadi del 1992.
Nonostante una grande presenza anche sulla scena calcistica europea, dove a cavallo tra gli anni ’90 e i ’00 Reebok vestiva la Fiorentina e il Liverpool e poteva vantarsi di avere come ambasciatori alcune star del calibro di Thierry Henry, Peter Schmeichel, Andy Cole, Dennis Bergkamp e Ryan Giggs, il legame con il mondo del calcio fu sciolto definitivamente alla fine del 2012, quando venne interrotto il rapporto che intercorreva con i Bolton Wanderers, la squadra inglese per la quale Reebok deteneva anche i diritti di sponsorizzazione dello stadio di casa.
Risale a pochi anni dopo, e precisamente al 2014, la decisione di rinnovare completamente l’inconfondibile logo “Vector”: sebbene la parentesi con la versione “Delta” durò solo cinque anni, fu sicuramente una scelta discutibile che divenne corresponsabile di un’ulteriore perdita di distintività del marchio, sempre più anonimo e fragile.
Nel 2016 l’operazione “Muscle Up” fu un turnaround plan non indifferente per le sorti di Reebok che, oltre alla chiusura di oltre 40 store in tutto il mondo, tornò a concentrarsi su ciò per cui si era inizialmente specializzato, ovvero l’abbigliamento per la corsa ed il fitness. Un cambio di direzione che poi ha riguardato in maniera più specifica il training amatoriale ma anche discipline come l’UFC, la Spartan Race e il CrossFit. Una mossa probabilmente necessaria per invertire la tendenza negativa degli ultimi anni ma che fermò di fatto l’evoluzione di Reebok segnando il conseguente ridimensionamento del marchio e il suo distacco, forse definitivo, nei confronti dei trend mondiali e dei comportamenti degli altri competitors. Ecco perché se pensiamo a cosa era Reebok nel 2006 e a cosa è diventato oggi, non possiamo che considerarlo una realtà marginale di cui rimangono solamente ricordi sbiaditi dei tempi che furono, nonostante i recenti tentativi di utilizzare il fascino del brand per pianificare prestigiose collaborazioni che hanno coinvolto, con alterne fortune, celebrities come Victoria Beckham, Gigi Hadid, Gal Gadot e Cardi B ma anche fashion label come Vetements, Gosha Rubchinskiy, Palace, JJJJound e Maison Margiela.
La crisi del 2020 non ha avuto pietà per un marchio divenuto così debole a causa del continuo deprezzamento del valore contabile e al crollo delle vendite che ha toccato anche il -44%, una zavorra che adidas ha deciso inevitabilmente di scaricare al più presto anche a costo di rimetterci parecchio. Il futuro di Reebok oggi è una grande incognita: il prezzo richiesto dal marchio tedesco non ha scoraggiato affatto nuovi acquirenti interessati a risollevare l’azienda anche se molto ridimensionata, sebbene probabilmente non tutte le ipotetiche soluzioni sarebbero quelle ideali. Una di queste, la più suggestiva, è quella che vedrebbe subentrare la coppia formata dal rapper Percy ‘Master P’ Miller e dall’ex cestista professionista in NBA, Baron Davis: se n’è parlato in maniera concreta di recente e si tratterebbe di un progetto molto affascinante se non altro perché capace di restituire Reebok al suo vecchio habitat, quello che ha gli permesso di crescere maggiormente e di diventare un’icona di stile indiscussa.
Mentre ci concentriamo sulla trasformazione di Reebok in un marchio di lifestyle e non solo in un marchio di basket, la nostra iniziativa più importante sarà quella di reinvestire i soldi nella comunità che ha costruito questa azienda.
‘Master P’ in una recente intervista su Forbes
Quello di associare l’estetica di Reebok alla cultura afroamericana o a quella degli sneakerhead più nostalgici potrebbe essere l’unico vero modo per invertire la rotta e riportare in alto il marchio, che proprio grazie al lavoro di rivisitazione di vecchie silhouette diventate iconiche era comunque riuscito negli ultimi tempi a non sprofondare del tutto. Come è spiegato in un articolo di un paio di anni fa pubblicato su Fast Company, è solamente grazie al recente lavoro organizzato dalla sezione Classics se Reebok è riuscito a rimanere in vita, tornando a puntare forte sul footwear attraverso l’attività di hacking interiore. Un po’ come fatto da adidas con la divisione Originals, si è deciso di rispolverare dagli archivi alcuni modelli evergreen (le Classic Leather, le Club C, le InstaPump Fury, le Aztrek, le Kamikaze) per rilanciarli sul mercato vista la fortissima domanda di quelle stesse scarpe che hanno reso grande l’azienda.