Under Armour è un marchio particolare, nato nel mondo performance e rapidamente asceso all’apice del mondo dell’abbigliamento sportivo. L’azienda di Kevin Plank, ex special teamer nella squadra di football dei Maryland Terrapins a livello collegiale, è nata proprio dalla sua idea di realizzare una maglia in materiale tecnico da tenere sotto le protezioni tipiche del suddetto sport per combattere i problemi che le maglie in cotone e il sudore creato portano. Il prodotto di Under Armour è diventato un must prima nel mondo del football americano, poi nel mondo del fitness, e finalmente nel basket e nel calcio. Negli ultimi anni però Under Armour ha preso una piega diversa, figlia di investimenti dubbi che hanno portato il brand a perdere considerazione e soprattutto sponsor.
Plank ha iniziato con lo sviluppo tecnologico, senza particolare focus sull’estetica. L’obiettivo era infatti quello di realizzare qualcosa di performante e utilizzabile al massimo dello sforzo fisico con estrema comodità. Dopo la solita vendita a mano dal bagagliaio dell’auto che le storie del sogno americano ci impongono, Plank ha trovato un accordo con la sua alma mater Maryland a cui fornì prima i sottomaglia e poi, con lo sviluppo di nuovi prodotti e una struttura aziendale seria, l’intero materiale tecnico, dalle maglie da gioco alle scarpe. Il business iniziato a metà anni ’90 è esploso e ha raggiunto un primo apice nel 2006, per poi toccare una nuova vetta nel 2013.
Da questo punto l’effetto snowballing è stato logico. Prima hanno firmato alcuni nomi nel football americano, poi anche in altri sport ma sempre scelte azzardate e dal marketing complesso, come la partnership con Brandon Jennings quando, ancora grande talento del basket liceale, decise di proseguire la sua formazione con la Virtus Roma rispetto alla più tradizionale carriera collegiale. Poi arriva la firma con Steph Curry e UA inizia a fare sul serio nel mondo del basket, con l’introduzione di una prima signature line.
Dal basket segue il mercato europeo, un tempo non interessante per UA. Il tutto è partito grazie al mondo del training e del fitness, già conquistato in America grazie ad app come MapMyFitness e MyFitnessPal per le quali furono investiti fino a 700 milioni di dollari.
UA impazziva per chi si allena in generale: dalla palestra fino al mio collega che fa scherma giapponese, ma anche chi fa rugby. Le motivazioni sono varie, come la qualità e la comodità dell’abbigliamento, ma anche il marketing che c’era dietro e la bellezza estetica, seppur minimal, dei capi. Inizialmente era anche difficile da trovare in Europa, cosa che lo rendeva un brand attraente per la sua esclusività.
Marco Fraschini, strength and conditioning coach
Il mondo europeo e sudamericano non poteva che essere dominato con il calcio. Nacquero quindi legami con squadre di alto profilo tra cui il Southampton, l’AZ Alkmaar, il Colo-Colo, il Fluminense, St. Pauli e soprattutto il Tottenham. Negli anni la crescita pareva obbligata, al punto che nel 2013 UA divenne il secondo brand di abbigliamento in America, superando anche New Balance, adidas e tutte le altre, attestandosi sotto Nike.
Dal 2015 però arrivano i primi problemi. La mancanza di identità e di un lato fashion l’hanno etichettato come brand poco giovane, elemento esasperato dal fatto che molti prodotti UA furono associati all’estetica dei supporter di Trump, una macchia difficile da scrollare se il tuo nuovo target sono gli under 35. Da qui iniziano i primi problemi di vendita, i primi quarti chiusi in negativo, i magazzini pieni di prodotto invenduto per un valore di 1.3 miliardi di dollari, le investigazioni da parte dello stato sulle pratiche contabili, l’addio di Kevin Plank dal ruolo di CEO.
Il trend negativo di Under Armour è proseguito fino a oggi. UA ha vissuto un brutto 2020 con perdite che sfiorano i 200 milioni di dollari e, peggio ancora, un ulteriore forte calo delle vendite, peggiorate di oltre il 40% rispetto agli anni precedenti. Queste situazioni hanno portato il brand a scelte drastiche come l’interruzione dei rapporti con Team 22, il partner per la produzione del materiale da lacrosse, e molti club importanti. Prima è stato rotto anticipatamente il contratto con il Tottenham, passato a Nike, poi è toccato al St. Pauli che ha deciso di iniziare a prodursi i kit in autonomia, poi gli UCLA Bruins, una delle squadre collegiali più importanti del panorama americano, passati a Jordan, e ora è toccato al Southampton. Addirittura è arrivata la rottura del contratto per la fornitura di tutti i team MLB, la lega professionistica di baseball, nonché primo accordo per un’intera federazione mai sottoscritto da Under Armour. Tutti questi erano accordi validi fino a oltre il 2023, interrotti con anticipo da entrambe le parti. Persino su Steph Curry, il proprio atleta di punta, sono state fatte variazioni, creando Curry Brand, un marchio autonomo sotto l’ombrello di Under Armour dato che l’appeal del solo Curry è ben più alto sul mercato rispetto a quello di Under Armour.
L’ennesima perdita nel calcio di Under Armour non significa altro se non l’addio di UA dal pallone ai massimi livelli dato che l’ultima squadra europea nel proprio roster è il York City F.C., attualmente nella sesta divisione calcistica inglese. Nonostante qualche squadra tra Argentina, Cile e Australia, il calcio europeo vestito UA è ormai totalmente nelle mani di Depay e Alexander-Arnold, seppur anche in questo caso un paio di occasioni siano andate perse: Depay ha lanciato una collezione lifestyle con un suo brand personale e un album rap, il tutto senza l’apporto di Under Armour, così come TAA ha più volte giocato con scarpini customizzati a tema Black Lives Matter, custom realizzati esternamente dal marchio come dimostra la quasi totale copertura del monogramma del brand. Inizialmente si parlava anche di UA attiva nella corsa alla nuova sponsorizzazione tecnica della Roma, una voce presto smentita appunto per la suddetta mancanza di fondi di investimento, al contrario della connazionale New Balance che dovrebbe essersi assicurata la partnership.
In questi anni è stato perso anche un altro legame rilevante, quello con il tennis. Andy Murray, atleta chiave del brand, si è distaccato totalmente dal marchio americano per passare a Castore, brand giovane di cui il tennista è diventato anche investitore, celebrandone il modello di business.
In questa carenza di fondi, Under Armour ha deciso di focalizzarsi sulle categorie in cui ha sempre primeggiato, ovvero football americano e baseball. UA ha quindi cercato di ridurre il rapporto con i club e concentrarsi solo sui singoli atleti, quantomeno a livello professionistico, ovvero l’attività che il brand preferisce, come dimostrano le sponsorizzazioni di Tom Brady e Bryce Harper, ma anche Steph Curry nel basket, Lindsey Vonn nello sci o The Rock tra gli altri personaggi famosi. Under Armour sta proseguendo nella creazione di materiale strettamente legato ai suoi atleti chiave, con loghi autonomi e signature line che spaziano da apparel a sneakers per cercare di colpire il mercato attraverso figure pubbliche estremamente conosciute e amate da tifosi e appassionati, ma soprattutto conosciute dal pubblico trasversale, ovvero quello che non segue necessariamente lo sport. Da qui arrivò anche la collaborazione con ASAP Rocky ma la scarpa realizzata assieme non ha influito come avrebbe dovuto e soprattutto non ha avuto un seguito solido né a livello apparel né tantomeno dal punto di vista pubblicitario. Lo stesso può valere per la partnership con Palm Angels, non abbastanza valorizzata.
Lo sport, specie lo sports marketing, ci ha insegnato che tutto può cambiare rapidamente, ma al momento il destino sembra chiaro: dopo il tennis e il lacrosse, anche il sipario di Under Armour nel calcio che conta si è chiuso, ma il rischio è di perdere ulteriori pezzi. Recentemente il brand ha chiesto di prolungare i termini di pagamento per i suoi atleti chiave quali Tom Brady e Steph Curry, e ha annunciato il licenziamento di oltre 600 persone dai quartieri generali. A riprova di questi numeri troviamo il mercato azionario: da 51,31 dollari, i valori delle azioni di UA hanno toccato i 7,86 dollari a maggio, salvo tornare ai 15,86 di oggi, gennaio 2021. Rappresenta comunque il punto più basso dalla fine del 2017.